Venerdì 02/05/2025 
Parvapolis
categorie
Home page
Appuntamenti
Cronaca
Cultura
Economia
Politica
Sport


Parvapolis >> Economia

Latina. Contro la stagnazione economica ed il blocco del decollo industriale. Domenico Cambareri: «Per una via all'espansione produttiva»

L’andamento negativo e inatteso degli introiti fiscali da parte dello Stato, la stagnazione produttiva e il conseguente temporaneo non raggiungimento degli obiettivi pluriennali e comunitari di bilancio hanno innescato in questi giorni un forte scontro tra maggioranza e opposizione. A mio avviso, i limiti della manovra messa in atto dal governo Berlusconi, e racchiusa nell’ultima colorita definizione di “patto per l’Italia”, rimarcano, più che l’obiettiva contrapposizione delle logiche di governo, il tratto unificatore e di continuismo che accomuna, purtroppo, in parte le linee di fondo dei vecchi e del nuovo governo. Con questo non mi sogno di dire e quindi di non riconoscere al premier e all’esecutivo quanto a loro si deve dare atto di stare facendo, ad iniziare dall’apertura delle “ostilità” con la CGIL. Questo sindacato infatti costituisce la parte più retriva, coesa e bellicosa di quel sistema potente e fortemente radicato nelle cointeressenze del potere triconfederale ancora in larga misura gestito, controllato e egemonizzato in quelle più diverse forme che hanno contraddistinto e contraddistinguono l’anomalia parasovietica del “sistema Italia” nel contesto delle nazioni occidentali e dell’odierno “Occidente allargato”. Non sto qui ad elencare gli altri meriti di questo governo e a consumarmi in panegirici. In questo spirito, mi premerebbe sottolineare semmai i suoi demeriti, spesso evidentissimi, su cui comunque avrò ulteriori occasioni di intrattenere i lettori di PavapoliS. E ciò non per spirito di polemica quanto per evidenziare quei limiti e quelle insufficienze ideative, operative, compromissorie e fortissimamente limitatrici del processo di rinnovamento civile al fine di stimolare un arricchimento delle prospettive, delle dialettiche e delle decisionalità a più alto profilo della coalizione al governo. Cioè, per stimolare, se non contribuire, a risponder maggiormente all’adempimento degli impegni assunti, quanto correggerli e rielaborarli nelle parti non adeguate alla realtà dei problemi e delle soluzioni, e a soddisfare le esigenze e le aspettative del Paese.
In tal senso, rilevo come il retroterra di cultura politico-economica di gran parte della classe politica si collochi su posizioni e visuali molto ristrette, i cui limiti discendono dalle impostazioni ideologiche fissate dalle teste pensanti del filosovietismo attivo, dal neutralismo iperattivo e superconvergente nelle finalità strategiche con il primo, e dalle teste d’uovo della sinistra moderata e dei democristiani degli anni sessanta, azzoppati e accecati sconfitti dall’egemonia marxista. Su queste direttrici, gli ulteriori tre decenni di storia nazionale hanno riconfermato i forti limiti della classe politica italiana. In effetti, per quanto andrò a dire, vi è stato un interludio quasi decennale sul piano dell’approccio ideativo, a cavallo fra gli anni settanta e gli anni ottanta, dovuto più che altro all’urgere della questione della difesa estrema dell’Occidente e della NATO a fronte dell’espansionismo sovietico e del suo tentativo di porre in essere la finlandizzazione dell’Europa occidentale con un più che presumibile e atteso attacco. Qui, per inciso, nasce un’ altra enorme colpa della classe politica democristiana e della sinistra non comunista: l’avere taciuto e il non avere informato adeguatamente i cittadini, prima e dopo, che con la battaglia per l’installazione degli “euromissili” si andava a vincere e si vinse una guerra non combattuta, difensiva ed epocale, con l’Unione Sovietica. Vittoria che da lì a poco avrebbe portato all’implosione della stessa Unione Sovietica e del suo sistema di dominio. Di questa vittoria dell’Occidente, non vi è traccia evidente nella coscienza degli italiani, e ancor meno nella loro classe politica.
Il processo ideativo, operativo e industriale legato a quel contesto, determinato dall’accrescimento delle spese militari in termini reali del 3% annuo voluto da Reagan per tutti i componenti della NATO, nessuno escluso (leggi: l’Italia occidentale e paracomunista), veniva messo in atto da alcune brillanti intelligenze militari e industriali. Ciò portava, con l’adozione della Legge Navale di durata decennale e con l’adozione di similari strumenti legislativi e finanziari per l’Esercito e l’Aeronautica, a quel minimo potenziamento del nostro strumento militare e alla possibilità di avviare, con la realizzazione di navi e mezzi all’avanguardia, un’attività di esportazione redditizia, ammontante ad alcune migliaia di miliardi, e di ricerca e sviluppo scientifico che accorciava le nostre distanze dal resto della grandi nazioni europee. Dalla seconda metà degli anni ottanta, purtroppo, con l’allontanarsi del pericolo sovietico e con il persistere della pressione interna della sinistra estrema, i governi italiani falcidiavano i già contenuti investimenti militari, a differenza di Francia, Regno Unito, Germania e Stati Uniti, che con esecutivi democratici e di sinistra rimanevano i dominatori del mercato, e bloccavano o rendevano di fatto inattuabile l’esportazione di materiale bellico per i laccioli giuridici o per la non più adeguata competitività dei mezzi rispetto alla produzione internazionale. In questo ultimo quindicennio, perciò, le scellerate scelte politiche hanno vietato la possibilità di accrescere o di difendere i livelli occupazionali del settore della difesa, le cui ricadute nel settore civile sono ampie, qualitativamente elevatissime e strettamente connesse (industria aerospaziale, elettronica e informatica, cantieristica navale, motoristica sistemistica e impiantistica; impieghi satellitari e meteorologia, geologia, ricerca, lotta all’inquinamento e protezione civile) ed hanno rinunciato ad incamerare valuta pregiata per migliaia e migliaia di miliardi, tanto che non solo la Cina comunista ma anche altre nazioni, come la Spagna, Israele e il Brasile ci hanno abbondantemente superato da anni in questo export di vitale importanza. Il danno è diventato incalcolabile, anche perché il gap tecnologico ha raggiunto livelli spaventosi rispetto agli USA.
A ciò non giova dire che è qualcosa di passato. Il presente riconferma gli errori precedenti. Il governo in carica si è impegnato, almeno per bocca del ministro della Difesa, Martino, ad elevare le spese del settore della difesa per portarli in un arco decennale dall’attuale 1,1% del pil all’1.5. Ma ancora nulla di certo sappiano dal ministro Tremonti. Premesso che questo aumento serve solo a salvaguardare l’estinzione dello stesso strumento militare nazionale, e che si dovrà di necessità ricorrere al varo di nuove “Leggi Navali”, e ricordando ancora che i governi e i partiti di centrosinistra hanno già portato al collasso l’industria della difesa nazionale (salvo che per essere pronti a regalare 4000 miliardi delle vecchie lire all’asse franco-tedesco per l’aereo da trasporto A-400 di cui non abbiamo bisogno) e il sistema militare al di sotto della soglia di sufficienza difensiva (per svolgere i ruoli insopprimibile della difesa dello spazio aereo nazionale siamo dovuti ricorrere all’affitto di aerei stranieri, prima inglesi e poi americani, in attesa dell’ingresso in servizio dell’EFA), c’è da riconoscere che ciò rappresenta una grande boccata d’ossigeno per l’industria e una oggettiva possibilità di accrescimento dei posti di lavoro.
Per quanto assolutamente insufficienti alla bisogna e alla possibilità di recuperare gran parte del gap tecnologico dei diversi settori e non solo in alcune nicchie, queste risorse, quantificabili in cinque miliardi di euro l’anno a regime, quanto prima saranno disponibili, cioè non oltre il 2004 rispetto al preventivato 2006-2007, tanto prima potranno permettere di realizzare benefici effetti a cascata, ridando fiato alle quasi inesistenti commesse straniere e rivitalizzando la ricerca. L’interazione finanziaria e industriale in questo settore determina regolarmente anche un rinnovato spirito concorrenziale dell’industria privata che opera in settori strategici tradizionalmente rappresentati degli interessi e dal capitale statale.È un ventaglio di possibilità e di competitività che rinasce e che investe perfino il mercato del naviglio costiero e dei velivoli minori. Se il bilancio per il prossimo esercizio finanziario sarà in grado di spostare una cifra iniziale sui seimila miliardi delle vecchie lire, anche attraverso le risorse destinate dai ministeri delle Entrate, delle Infrastrutture, dell’Ambiente e per le Attività agricole e della pesca che concorrono con la realizzazione di unità navali minori e di aerei ed elicotteri al potenziamento produttivo e operativo, potremo parlare di forte concorso in termini per il definitivo superamento della stagnazione della crescita e di promozione e di rilancio del “made in Italy”. Quanto dell’indiscutibile rafforzamento della partecipazione italiana nei progetti internazionali di ricerca sviluppo e industrializzazione, in cui le percentuali medie ci vedono al di sotto dei partner europei più importanti. In tutto questo, oltre a quanto potrà concorre il Ministero degli Esteri post-riforma Berlusconi, già da adesso il Ministero del Commercio Estero, con il viceministro Adolfo Urso è chiamato direttamente in campo assieme ai vertici militari e al ministro della Difesa e ai rappresentanti delle associazioni industriali dell’AIAD. Le esigenze, più che scelte, su cui qui ho discusso, e su di cui tornerò ancora con ulteriori e precisi riferimenti nell’ambito del contesto della politica internazionale e dei nuovi precari equilibri fra “primo mondo” e “terzo” e “quarto mondo”, che ci vedono coinvolti in pieno assieme all’Unione Europea, sono esigenze che non possono essere eluse. Questi nuovi pericoli, già esorcizzati in tutto l’Occidente con le terribili immagini dell’attacco dell’undici settembre scorso, hanno già soppiantato i felici anni dell’inizio dello scorso decennio, quando in Europa si raggiunsero elevati livelli di disarmo aero-terrestre e di fortissime riduzione delle truppe dispiegate nell’ambito della conferenza CSE. Nel frattempo, c’è da augurarsi che questo governo e questa maggioranza sappiano definitivamente affrancarsi da quella penosa dittatura mentale tutta comunista e tutta italiana, che così tanti errori e danni continua ad arrecare alla nostra economia, alla nostra società e, non ultimo, ai nostri lavoratori.

Domenico Cambareri


PocketPC visualization by Panservice