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Roma. Albertazzi all'Argentina. La seduzione della scena immaginata

C'è un filo conduttore che lega l'Albertazzi de «L'anno scorso a Marienbad», del «Dr Jeckill», dell'Enrico IV, del Casanova, dell'«Adriano» ed ora di questo «Giulio Cesare» in scena fino al 20 dicembre al Teatro Argentina di Roma: l'attitudine dello spettatore a poter vivere unicamente nella modulazione delle parole che questo straordinario attore riesce a trarre dal cilindro della sua anima. La simbiosi col pubblico, i continui ammiccamenti ad esso rivolti fanno parte della ultracinquantennale frequentazione cine-teatrale di questo viscerale animale da palcoscenico che anche stavolta, sulla spoglia pedana, riesce in maniera leggera, eterea, senza mai tuffarsi in ridondanti autocompiacimenti, a leggere tra le pieghe più recondite e sottili del variegato microcosmo umano. Um'ora e venti minuti di monologhi serrati e intervallati dal coro – composto da 15 comprimari bellissimi nella loro purezza algida – che accompagna il vero "padrone di casa", Monsieur Travet Giorgio Albertazzi - ora Bruto ed ora Antonio - che irrompe sulla scena col libro amletico e già permea la platea dei dubbi insiti nella mente del virtuoso Bruto, grande politico romano infarcito dei nobili ideali repubblicani a tal punto da anteporli alla devozione assoluta nei confronti del "padre" Giulio Cesare, sospettato di ambizioni imperiali, e che lo costringeranno al "parricidio". Analogamente all'edizione strehleriana di oltre mezzo secolo fa, anche l'adattamento di Calenda per Albertazzi enfatizza il dramma di Bruto, netta si staglia la sua figura di grandissimo politico dell'epoca, la cui cristallina coerenza ideologica deve fare i conti con la tendenza del tempo. Il pindarico Albertazzi contestualmente esalta lo spessore morale del fido Antonio, che vuole sì vendicare Cesare, ma che nutre sincera ammirazione per il rivale politico, rendendogli alla fine degna sepoltura. Le rivelazioni monologiche, sublimate da fasci di luce che impreziosiscono la tinta espressionista coreografica di Hal Yamanouchi, sedimentano nella mente dello spettatore grazie ai rapidi e gravi tratti musicali di Germano Mazzocchetti, corroborando la valenza ieratica di Albertazzi. Un testo attualissimo che fa riflettere sulla crisi di valori e soprattutto sulla mediocrità politica del nostro tempo, dove dominano i biechi particolarismi e gli interessi personali. Un'altra straordinaria prova di bravura di un giovanissimo "vecchio" attore in ottima forma, al quale manca solamente la dedica di una commedia che porti il suo nome, come trent'anni fa fece il più grande drammaturgo austriaco, Thomas Bernhard, con «Minetti».

Claudio Ruggiero


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