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Latina. Fiat, tutti a casa. I Radicali Pontini: «È la fine di un modello di capitalismo fondato sul rapporto con lo Stato. No a finti posti di lavoro»

«Nella situazione confusa di queste ore, il meno o il meglio che si possa dire è che sarebbe opportuno che tutti tornassero a fare il proprio- e solo il proprio- mestiere». I Radicali Pontini commentano così l'argomento principe di queste ultime settimane. «Per questo, non abbiamo nessuna intenzione di commentare le diverse ipotesi di piano industriale, ma ci limitiamo a rilevare che è ben difficile che un'azienda possa averne contemporaneamente più di uno e con diversi partners industriali e finanziari e con divergenti obiettivi di prodotto. Come è noto la crisi Fiat non è tanto crisi di un settore, ma crisi di un'azienda, e di un modello di capitalismo e di impresa fondata sul rapporto con lo Stato, di un sistema-paese in cui gli equilibri e le alleanze del mercato riflettono gli equilibri politici. Questo rapporto, questa idea della "salvaguardia politica" dell'industria nazionale, è alla base della crisi attuale, e ciò che ha rappresentato fino ad oggi la radice del problema non può costituire da domani la base della soluzione. Che la necessità dell'intervento dello Stato sia dissimulato dietro l'impegno di salvare i posti di lavoro rende la vicenda ancora più grave. L'unica ristrutturazione con una qualche possibilità di successo, anche dal punto di vista occupazionale, è quella finanziata da capitale di rischio. L'intervento dello Stato nel capitale o negli equilibri dell'azienda automobilistica rappresenterebbe un anacronistico tentativo di "irizzazione" di Fiat Auto e non garantirebbe un solo posto di lavoro, né un futuro per l'industria automobilistica in Italia, che come dimostra l'esempio inglese non passa attraverso la protezione degli interessi degli attuali azionisti. L'intervento pubblico o è inutile o è pleonastico. Se il piano di ristrutturazione è credibile, troverà le risorse sul mercato. Rispetto agli esuberi, sia lo Stato sia le Regioni - ivi comprese le fondazioni che afferiscono agli enti locali -, anziché immaginarsi protagonisti di operazioni finanziarie e societarie e opporre veti alla chiusura di qualche stabilimento, devono porre mano, con strumenti innovativi e non assistenzialistici, a interventi volti a favorire la ricollocazione e la mobilità professionale: devono occuparsi, insomma, di prospettare vere opportunità ai disoccupati, senza garantire loro la conservazione di finti posti di lavoro».

Mauro Cascio


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