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Latina. Si dice Iraq per non dire Iran. Domenico Cambareri: «Perché gli attacchi della "guerra giusta" si svolgeranno a Baghdad e non altrove»

Oggi, primo marzo, abbiamo l'azzeramento generale dei quadri orari e dei calendari parziali. Oggi per Washington e per tutto il mondo vi è la taratura del calcolo che precede l'inizio ufficiale del conto alla rovescia, da domani, o da lunedì. La macchina bellica alleata è quasi pronta, potrà contare fra i dieci e i venticinque giorni prima dell'attacco angloamericano all'Iraq. Le ragioni della pace in questi giorni consumeranno le loro ultime frecce in un tiro a segno inconcludente. Le ragioni della guerra sono state già decise e prevalgono, nel calcolo complessivo e presuntivo che le intelligenze artefici della nuova strategia planetaria americana ritengono di avere realizzato. Il Consiglio di Sicurezza dell'Onu dimostrerà i residuali margini del giuoco diplomatico, giuoco compromissorio e di mercato delle vacche magre (e dei voti dei rappresentanti non permanenti, appartenenti al terzo e al quarto mondo, acquisibili a suon di pochi dollari). A poco serviranno i meccanismi che prevedono il diritto al veto da parte dei componenti del club dei vincitori della seconda guerra mondiale. Le risoluzioni Onu permettono agli americani e agli inglesi di interpretare in maniera estensiva ma fondamentalmente corretta i termini della questione, ossia le perduranti violazioni di Saddam Hussein, il raìs di Bagdad in fatto di produzione di armi. I contenuti delle violazioni sono sul piano della tecnologia bellica insignificanti e irrilevanti, ma la questione ha acquisito una sua oggettività e riveste il valore simbolico del "casus belli". D'altronde, la strategia politica statunitense ha mirato in questi lunghi mesi di guerra d'informazione e disinformazione a focalizzare l'attenzione dei media e dell'opinione pubblica su questi fattori basilari e "ufficiali" : basilari e ufficiali ma al tempo stesso assolutamente inessenziali per comprendere le ragioni profonde delle scelte dell'amministrazione Bush.
L'Iraq di oggi è un Paese che, per quanto guidato da un dittatore cinico e spietato ( ma cinico e spietato quanto altri uomini e regimi che tranquillamente calcano la scena del potere nelle più diverse parti della terra), è stato ridotto a condizioni di malessere economico, sociale e igienico-sanitario molto gravi da un decennale pesante embargo decretato dall'Onu e su questi effetti pesantemente antiumanitari le torpide coscienze occidentali e in primis statunitensi nulla o poco hanno avuto e hanno da dire. Le sue condizioni industriali, belliche e di importazione di materiale bellico avanzato sono pressoché inesistenti. Gli stessi analisti americani indicano una capacità di resistenza della macchina bellica minima, se non nulla. Si può oggi solo ipotizzare una resistenza sul tipo di guerriglia e di attacchi suicidi contro le forze d'invasione solo in prossimità delle maggiori città e nel caso di un tentativo di occupazione (questa volta necessario, per gli americani) di Bagdad. Le fonti americane e internazionali hanno fatto sapere che l'amministrazione della Difesa statunitense ha provveduto ad addestrare alcune migliaia di esuli iracheni anche in poligoni europei, segnatamente ungheresi, al fine di coinvolgere direttamente le opposizioni anti-Baath e anti-Saddam nella guerra, per poterla presentare al popolo iracheno come una vera e propria guerra di liberazione. In ciò, sicuramente, gli strateghi USA stanno agendo con maggiore lungimiranza rispetto alla precedente guerra del Golfo, quando fecero pagare un enorme quanto inutile prezzo alle forze anti-Saddam di confessione sciita nel lembo di terra fra i due fiumi, che, sollevatasi in armi e in attesa dell'arrivo dell'esercito americano, vide i vincitori fermare l'avanzata: tornati tranquillamente i reparti della guardia repubblicana di Hussein, di loro fece piazza pulita. Un ennesimo massacro inconcludente perpetrato da Saddam Hussein che non prude alle coscienze di Washington, in innumerevoli occasioni alleati diretti o indiretti, perfino…quando nemici in guerra di Hussein, come in quell'occasione.
La intransigente e al tempo stesso spasmodica decisione di Bush e dei suoi collaboratori di colpire insieme l'Iraq e il suo dittatore non dipende da calcoli specifici sulla pericolosità oggettiva del regime iracheno, né di volere dimostrare agli americani e al mondo di sapere finalmente colpire e punire, né di inalellare chissà quale vittoria contro il terrorismo internazionale delle organizzazioni esclusiviste islamiche come Al Quaeda. Su questi aspetti, la strategia della Casa Bianca sui media risulta incerta, non convincente, al limite superficiale, contraddittoria, parziale, perfino falsa. È risaputo che gli americani e gli inglesi non hanno potuto presentare uno straccio di prova al mondo sulla connivenza del regime iracheno con le organizzazioni di Bin Laden. È altrettanto risaputo che ogni eventuale estrinseco contatto o rapporto intercorso o che potrà intercorrere in queste ore di "nodo scorsoio" fra Bagdad e gli uomini di Bil Laden può essere dettato soltanto dalla disperazione del regime iracheno e dal suo tentativo di arrivare a colpire comunque, perso per perso, gli statunitensi e gli inglesi e la "crociata anglosassone". È risaputo, tutto questo è risaputo, giacché i regimi per quanto dittatoriali come il Baat di Hussein sono di stampo occidentale nell'ideologia, nelle prassi, nell'organizzazione, nella forma mentis dei militari e dei ristretti club partitici, nazionalisti e "borghesi". Essi letteralmente galleggiano sul loro strato etnico-religioso, per quanto con esso debbano fare i conti in tutto e per tutto, e debbano articolarsi in maniera precisa secondo le regole parentali e claniche. E i regimi filo-occidentali, siano quello iracheno o siriano o quello moderato egiziano o tunisino sono tra i nemici giurati dell'esclusivismo islamico e di Bin Laden. È altrettanto risaputo, e le agenzie d'informazione hanno recentemente confermato la presenza di figli di Bin Laden in territorio persiano, che la Persia, ossia l'Iran della Repubblica Islamica ivi vigente, abbia rappresentato e ancora oggi rappresenti la madre di tutti gli integralismi politico-religiosi e il punto di riferimento massimo. Per quanto l'Iran di Katami si sia allonatanato dagli estremismi sanguinari e ultrafanatici degli anni settanta-ottanta (quando la rivoluzione islamica divorava i suoi stessi capi), questo grande e popoloso Paese, di fronte a cui nulla ha potuto l'enorme potenza statunitense, intreccia sottili trame e rilancia attività belliche e industriali che, con triangolazioni asiatiche, lo portano a potere disporre di nuovi strumenti offensivi, ad iniziare da quelli missilistici. È strano allora rilevare come l'Iran risulti essere come una specie di "buco nero" nell'ambito delle comunicazioni ufficiali dell'amministrazione americana. Raramente la Casa Bianca, il segretario di Stato, il Pentagono, il consigliere per la sicurezza del presidente fanno riferimenti, per di più generici, all'Iran. Bisogna risalire al crollo del regime degli ayatollah afgani e delle strutture logistiche e addestrative di Al Quaeda per ricordarsi che gli americani avevano minacciato in maniera imprecisa un attacco all'Iran in caso di offerta di rifugio ai terroristi islamici.
Ma bisogna anche non dimenticare di parlare dell'Arabia Saudita, l'alleato inossidabile (in apparenza) degli Stati Uniti e dell'Occidenti. Bin Laden e tutti i maggiori capi sono sauditi, talora egiziani o di altre nazionalità islamiche. La parentela e le amicizie di Bin Laden in terra saudita e la reazione emotiva antioccidentale fortemente presente e al tempo stesso controllata e nascosta in molti dei gruppi dirigenti di questa monarchia assoluta dicono cose ufficialmente non dicibili, su cui certamente gli analisti e gli strateghi statunitensi hanno cominciato a riflettere.
Sono tutti questi elementi che fanno capire perché gli americani attaccano un obiettivo che con le stragi dell'11 settembre non dovrebbe entrarci in modo alcuno. Più essi vengono sottaciuti, più essi sono probanti. Con una guerra "giusta" che appaga emotivamente le masse statunitensi e occidentali, d'un sol colpo l'amministrazione Bush consegue risultati inimmaginabili: abbattere a costi umani e materiali contenuti un regime decrepito che sopravvive a se stesso, quello iracheno, e rendere ufficialmente inalterato il quadro dei rapporti di amicizia con i sauditi e di "coesistenza" con gli iraniani. Ma non soltanto questo è l'obiettivo pagante e appetibilissimo: con il diretto controllo dell'area irachena e delle sue riserve petrolifere, gli americani si s'installano per un periodo di tempo indefinito (per quanto "breve"…) nel crocevia dei crocevia della produzione mondiale e dei rifornimenti di petrolio, e controllano direttamente tutto il Vicino Oriente e l'Africa orientale, con l'effettiva neutralizzazione politica della Siria e la marcatura a vista dell'Iran. La presenza Onu, che è anche presenza occidentale e americana in Afganistan blocca in una condizione di ingessatura forzata ogni azione prevedibile iraniana e spezza o rende precarie le comunicazioni fra le bande rifugiate in Persia o disperse fra l'Afganistan e i santuari pachistani. Lo stesso regime militare pachistano, che ha fomentato segretamente movimenti terroristici islamici e che è legato a doppio filo agli americani da un lato e ai cinesi dall'altro, dovrà tornare a più miti consigli, salvo nell'area dello scontro con l'India. Insomma, dalla Turchia e da Israele e dalla Giordania, al Sudan e alla penisola somala un'immensa regione da stabilizzare con la bandiera a stelle e striscie, e in grado di prevenire e colpire le organizzazioni terroristiche. In tutto questo quadro, ci sono molti se e molti ma su cui avremo occasione di intrattenerci in prossime occasioni, anche per focalizzare definitivamente quello che considero l' errore americano, errore di fondo quanto errore storico. A partire appunto dall'incapacità di comprendere le ragioni storiche irachene, ragioni ultracinquantennali; dall'incapacità di ridisegnare la geografia politica del Vicino Oriente nel dare indipendenza a un popolo, quello curdo, che sconvolge però i confini e gli interessi di più Paesi; e nel rendere doppiamente fragili i regimi, moderati o dittatoriali, di stampo filo-occidentale, rafforzando il ruolo dei dinasti del Golfo e delle ideologie esclusiviste che agiscono al buio e danno ossigeno e ideali alle organizzazioni terroristiche. Sul ruolo dell'Europa, c'è una più che magra consolazione: divisa sino al paradosso, tant'è che le nazioni europee per eccellenza filo-arabe nelle loro tradizioni diplomatiche, Italia e Spagna, si trovano oggi ad essere apertamente schierate con l'alleato americano. Garantire l'alleato dall'isolamento sì, cosa politicamente valida e pagante, ma non al punto da ribaltare i termini storici, politici e diplomatici del problema e lasciare a Germania e Francia un ruolo che spetta anche a noi.

Domenico Cambareri


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