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Latina. La guerra è inevitabile. Domenico Cambareri: «Qualche leggerezza americana ha ridato il fiato all'inutile pacifismo di carriera. Adesso l'Europa deve lavorare per ricomporre le gravi lacerazioni con Washington»

Mentre al Palazzo di vetro dell'Onu è in atto una ininterrotta battaglia diplomatica senza esclusione di colpi, in cui le ore e i minuti di rinvio potrebbero risultare preziosi in maniera imprevista per le ragioni della pace, ma sempre in funzione dell'obiettivo di ottenere soddisfazioni nell'adempimento delle risoluzioni ONU da parte di Saddam Hussein. Mentre risulta sempre più palese e larga la frattura, purtroppo, fra la diplomazia USA e quella di diverse altre fra le maggiori potenze, e di come si sia resa improvvisamente duttile e possibilista ma al tempo stesso altalenante e insicura quella inglese agli occhi di Bush, conviene trattenersi con pacate e non prevenute riflessioni sui diversi perché di questa prossima guerra. Ciò anche in relazione a quanto in più occasioni, relativamente al contesto del Vicino Oriente ho espresso, ossia l'idea che al fondo di tutte le incongruenze dalla politica estera statunitense vi è, purtroppo, un grande errore. Questo errore, storico e attuale, nasce nel momento stesso in cui gli USA, diventati grande potenza planetaria all'indomani della prima guerra mondiale, si inserivano nel concerto delle potenze coloniali europee rivendicando stesso titolo e stesso ruolo, per quanto la loro società già allora avesse evidenti componenti multi etniche. La fine del secondo conflitto mondiale sanzionava la nascita della superpotenza nucleare e convenzionale statunitense e dimostrava in che misura generale e definitiva invece fossero state sconfitte le velleità anglo-francesi di preservare i loro imperi coloniali. Fondamentalmente, in questa ristretta sostituzione del ruolo della potenza di riferimento, è trascorsa la seconda metà del secolo XX. La politica estera americana non ha fatto altro che sostituirsi a quella di Londra e a Parigi, continuando in tutto e per tutto quella che era stata l'enucleazione, l'attuazione e l'articolazione della politica di potenza anglo-francese di fine ottocento - primo novecento. Essa ha dimostrato il più alto grado di continuismo e di conservatorismo e il più alto grado di incapacità ideale, teorica e di elaborazione di una nuova e adeguata dottrina di politica estera relativa a tutta la fascia meridionale asiatica e ad una sua nuova sistemazione etnico-geografico-politica. Si dirà che, all'indomani del secondo conflitto mondiale, gli Usa ebbero l'esigenza di parare e respingere in tutti i modi la multiforme, persistente e pericolosissima aggressione politico-ideologica e di espansionismo indiretto nelle più diverse aree del Terzo e del Quarto mondo del comunismo sovietico. Quell'aggressione che in Europa si concretizzò nel muro contro muro della "guerra fredda", nel potenziale, programmatico impiego dell'arma nucleare come "mutua distruzione assicurata" e nella lotta dei partiti comunisti filo-sovietici all'interno di alcune nazioni europee (Italia e Francia). Indubbiamente ciò è vero, ma non bastevole. Gli Usa realizzarono, con il diretto apporto inglese, una lunga cintura di sicurezza attorno all'Unione Sovietica, che saldava e rendeva continue le Alleanze attraverso la NATO, la CENTO e la SEATO, salvo l'interruzione del subcontinente indiano. Perni fondamentali e punti di raccordo politico furono la Turchia e la Persia dello scià Reza Phalevi. Secondo i progetti iraniani e statunitensi, la Persia sarebbe dovuta diventare già negli anni ottanta la quarta potenza convenzionale aero-terrestre, dopo gli USA l'URSS e la Germania, e fra le prime dieci potenze aero-navali. Ma il ruolo filo-occidentale della Persia crollò repentinamente con l'esplosione della rivoluzione islamica. Con questa ambizione fallì il più valido tentativo di occidentalizzare il più importante popolo islamico (ad eccezione della Turchia, già su quella strada con molte incertezze e con pericolosissimi sciovinismi) e di realizzare nell'Asia centro meridionale il più importante bastione militare e industriale dell'Occidente. Non è da dimenticare anche l'imperatore aveva dato inizio alla rinascita dell'antica religione persiana, creando fanatiche opposizioni islamiche. Oltre questo, prima di questo e dopo di questo, l'inadeguatezza politica statunitense. O, anzi, un arretramento strategico e dottrinario che si dimostrerà alla lunga nel tempo, a differenza degli interessi a ricaduta a breve e medio termine. Infatti, gli USA hanno appoggiato tutti i più diversi regimi del Vicino e del Medio Oriente che hanno presentato una condizione di opposizione o almeno di non duratura coincidenza degli interessi con quelli sovietici. È il caso diretto e specifico del regime iracheno. È il caso dei perduranti, positivi rapporti con i diversi regimi pachistani. È il caso dei regimi feudali e assolutistici e teocratici del Golfo, con Arabia Saudita in testa. Di altro, di ridefinire attorno a tavoli e in fori internazionali i confini degli Stati esistenti, anche attraverso mediazioni e pressioni inizialmente "riservate" per attuare i principi basilari della Carta dell'ONU sull'autodeterminazione e sull' indipendenza dei popoli, non un'azione concreta. Anche dopo l'implosione dell'impero sovietico, anche dopo il recente partenariato, anzi dopo l'alleanza fra NATO e Russia sancita a Pratica di Mare lo scorso anno. Questa completa passività statunitense, imperniata sul vivere alla giornata e nell'appagare i grandi interessi delle grandi lobby nello sfruttamento del petrolio (ricordiamo le royalties della miseria per decenni date agli arabi) che hanno condizionato anche pesantemente l'esercizio della potenza americana nel Vicino e nel Medio oriente, ha portato le amministrazioni statunitensi ad assumere il ruolo di uno struzzo ammalato di fronte ai continui massacri del popolo curdo operato dai turchi, dagli iracheni, dai persiani. Si dirà che anche i curdi, con le continue divisioni interne e con le lotte tribali hanno contribuito a tutto questo. Vero, ma non bastevole ad esentare dalle sue colpe la maggiore potenza, incapace di svolgere efficacemente il ruolo di "policy" internazionale che ha sempre rivendicato e che oggi più che mai si arroga, e che per di più obiettivamente le spetta in quanto maggiore potenza, nel contesto dei meccanismi societari. Le odierne alleanze infra-regionali, dimostrano la gravità del quadro politico e strategico di tutto il Vicino e Medio Oriente. La Turchia continua a violare le norme sui diritti umani e ad osteggiare ogni idea di nascita di una nazionalità curda, e allo stesso tempo progetta la realizzazione di dighe che immiserirebbero Siria e Iraq e porterebbero a conflitti enormi e davvero duraturi nel tempo, tiene sempre alto il contenzioso con la Grecia per la piattaforma continentale e le acque dell'Egeo e per la questione di Cipro (Kofi Ananan ha appena annunciato il fallimento degli incontri sotto egida ONU), rigetta ogni idea del riconoscimento del genocidio armeno attuato durante la prima guerra mondiale e ogni possibilità di cedere alla piccola Repubblica armena tutto il territorio armeno che è dentro i suoi odierni confini, dimostra quale grado di incapacità della politica statunitense vi sta dietro. Peraltro, senza prevenzioni e senza false obiezioni, è al contempo bene che l'Unione Europea avvicini sempre più la Turchia a sé, quale irreversibile rotta che deve portare, speriamo entro un decennio, all'ingresso della Turchia nell'Unione e al contempo al superamento definitivo di questi elementi ostativi. Vanno quindi superate le opposizioni, in particolare, francesi, all'interno dell'Unione. L'errore americano è tanto più grave quanto più riflettiamo sulla sua lunga durata e sull'incapacità degli analisti e degli strateghi di Washington di capire che diritti ed esigenze altrui non necessariamente debbano portare a posizioni di un rinnovato antiamericanismo. Non dimentichiamo che tra i maggiori avversari degli americani di oggi, come Bin Laden e i suoi accoliti, vi sono stati spesso uomini che hanno agito con e per conto degli americani, non solo in Afghanistan. Gli avvenimenti dell'11 settembre pare che non abbiano fatto che aggravare questo grado di cecità americana. Esemplificazioni, generalizzazioni, falsificazioni, desideri di vittoria su obiettivi in buona misura sbagliati ridanno fiato ai tanti pacifisti di carriera e ai tanti "pacifisti" rosso-arrabbiato, ossia agli antiamericani sempre e comunque, i quali hanno buon giuoco nell'amplificare il significato e i fini delle manifestazioni e nello strumentalizzare la diffusa contrarietà in tutto il mondo occidentale all'imminente intervento USA in Iraq. Cosa più plateale è il fatto che la nuova strategia aggressiva e della "guerra preventiva" e della "guerra giusta" viene messa in atto da un'amministrazione conservatrice, visto che tradizionalmente nella politica USA il partito conservatore è espressione di tendenze isolazioniste. Inoltre, il padre di quella mezza vittoria di undici anni addietro contro l'Iraq, Bush senior, il quale allora riuscì comunque a coalizzare quasi tutto il mondo contro Saddam Hussein, oggi non perde occasione per convincere il figlio a soprassedere alla decisione ultima e a non intraprendere il pur brevissimo conflitto senza conseguire prima un'ampia e convinta adesione internazionale attorno alle tesi americane. Certo, sono comprensibilissime le odierne analisi e determinazioni degli strateghi americani: attaccare il cadente e debole regime di Saddam Hussein, insediare un regime pilotato direttamente da Washington, controllare geograficamente, militarmente, politicamente tutto il Vicino Oriente e segnatamente l'Iran e gli stessi alleati pachistani e sauditi, è un qualcosa a cui è difficilissimo rinunciare. Qualcosa cui qualsiasi altro presidente USA saprebbe difficilmente rinunciare. Quest'operazione infatti determinerebbe, secondo in punto di vista americano, il potere esercitare una effettiva e continua capacità di individuazione interdizione, repressione delle operazioni e dei gruppi dei terroristi di Al Qaeda e delle altre organizzazioni terroristiche. Ma è altresì vero che potrà innescare reazioni a catena, anche contro l'Occidente, difficilmente prevedibili nella loro portata, destabilizzando con buona probabilità i regimi arabi moderati, i quali si troverebbero costretti a dare un giro di vite alla condizioni di alquanto diffusa libertà interna. Al grande progetto di controllo e di guida della stabilizzazione di questa grande e cruciale area, potrebbe quindi subentrare un imprevedibile e incontrollabile moto di reazione, che arrecherebbe danni incalcolabili a tutto l'Occidente e all'Europa in particolare, vulnerabile come è sul piano energetico e della dipendenza dalle esportazioni dei prodotti industriali. È importante che gli strateghi e l'amministrazione americani comprendano il fatto che, per quanto gli USA sono davvero l'unica superpotenza e per quanto ad essa spettano responsabilità, ruoli e decisioni primari ma che non sono assolutamente non esclusivi; e per quanto oggi vivono drammaticamente la paura della vulnerabilità di fronte ad attacchi terroristici, essi non possono utilizzare il loro potere per imporre le loro scelte sempre e comunque. L'azione politica svolta in questi giorni dalla Francia, dalla Germania e dalla Russia merita plausi. Su ciò, avrò occasione di dire il perché. Essa non è un'opposizione in chiave antistatunitense, quanto un'opposizione ai criteri, ai metodi, alle valutazioni, alle decisioni unilaterali degli USA e del governo inglese di Tony Blair; salvo quella troppo estremista nel suo pacifismo di maniera del non intervento in qualsiasi caso finora espressa da Berlino. Troppi errori, che vanno non condivisi e denunciati dagli stessi amici e alleati degli USA. Nella speranza, comunque, che queste valutazioni, queste perplessità e queste non condivisioni risultino smentite il più possibile alla prova dei fatti. L'Europa, infine, come auspicio e come sua esigenza imperativa, oltre alle divisioni interne sulla questione irachena, deve trovare un'unitarietà d'azione definitiva a partire da quelle che si può già da adesso considerare il "dopo Iraq", e ricucire la grandi lacerazioni con Washington, facendo ciascuno di essi metà della strada che oggi separa le due sponde dell'Atlantico.

Domenico Cambareri


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