Venerdì 02/05/2025 
Parvapolis
categorie
Home page
Appuntamenti
Cronaca
Cultura
Economia
Politica
Sport


Parvapolis >> Politica

Latina. La guerra. Domenico Cambareri: «Pensiamo adesso al dopo Hussein a stelle e strisce». Fuori dalla storia i primi sconfitti: i pacifisti

In base a quanto si era da tanti e anche da me anticipato, pure senza volere fare torto a quanti si battevano e si battono ancora per le ragioni della pace a tutti i costi, la guerra è in atto. Sarà con buona probabilità una guerra molto breve, un conflitto in cui davanti all'esercito anglo-americano vi è solo uno spettro dell'esercito nemico o ancor meno, e non ci sarà la presenza dei fantasmi della guerra chimico-batteriologica tanto evocati a pretesto. Ci saranno semmai sacche di resistenza e, fino a che non vedremo le albe dell'appena entrata primavera trapassare in quelle estive, il rischio di colpi di coda e di pericolosi e temuti attacchi terrorisitici. Il coinvolgimento della popolazione civile irachena negli scontri dovrebbe risultare minimo, e auguriamoci perfino marginale. Forse per questo martoriato popolo si potrà dischiudere, dopo decenni di colonialismo prolungato nelle forme più diverse e infine di regime dispotico, un periodo di rinascita civile e di effettiva libertà politica. Ma perché questo possa accadere, bisognerà affidare la conduzione di questa delicatissima fase transitoria alle Nazioni Unite e alla Lega araba. Ridare fiducia al più importante organismo mondiale rappresenta per l'amministrazione americana un passo obbligato, a meno di non volere mandare definitivamente in crisi l'ONU, gli equilibri planetari e la lunga, sodale alleanza atlantica. Cose assolutamente impensabili per la politica americana. In tutto questo, è anche da capire che gli Stati Uniti non rinunceranno mai a svolgere un ruolo di gestione e operativo "sovradimensionato", non fosse altro per il fatto che sono stati loro a condurre quest'attacco e ad affrontare spese che si aggirano sui novecentomila miliari di vecchie lire. Ciò indubbiamente e soprattutto - è bene ribadirlo senza ipocrisie - è stato fatto per conseguire il simultaneo obiettivo di esercitare una capacità di controllo e di gestione di crisi in tutto il Vicino e Medio oriente, ivi comprese tutti gli Stati dei popoli turchi dell'Asia centro-occidentale e orientale, e di diretta interdizione di pericoli convenzionali, e di attività "non convenzionali", in particolare di tipo terroristico. Raggiunto l'obiettivo geopolitico primario (enormemente più importante del ruolo che i giacimenti petroliferi iracheni possono svolgere in favore del fabbisogno energetico dell'economia USA su cui spesso si parla a sproposito) con il contestuale abbattimento del regime di Saddam Hussein e l'instaurazione di una "occidentalizzazione" del modello politico da esportare in prospettiva in un futuro non prossimo nelle regioni vicine, gli USA ritengono di potere dare l'avvio a una sistematica lotta senza quartiere ai gruppi terroristici che minacciano la loro sicurezza dalle sterminate e remote plaghe asiatico-islamiche. In queste ore di guerra, tuttavia, risulta quanto sia stata affrettata e rischiosa la mossa americana sul piano dell'organizzazione tecnico-logistica dei rifornimenti, soprattutto dopo che la Turchia non ha autorizzato l'attacco delle truppe anche dal suo territorio. Risulta anche scabroso e certamente rischioso l'utilizzo di truppe turche (si parla di oltre trentamila uomini) per controllare ed eventualmente occupare in via temporanea le aree del Curdistan iracheno attorno a Mossul, per garantire la difesa dei pozzi di petrolio. Non si dimentichi infatti che i turchi sono fra i più odiati nemici dei curdi. Nei prossimi mesi, una fra le cose più importanti da osservare per gli americanI, gli europei, i giapponesi e... i russi (in questi anni e ancor più oggi ottimi fornitori di tecnologia nucleare) e i cinesi (ottimi fornitori di tecnologia missilistica) sarà l'atteggiamento, ufficiale e ufficioso, del regime degli ayatollah persiani. E con esso, osservare quale sarà la politica interna saudita, dopo che gli Stati Uniti ritireranno l'ultimo aviatore dall'ultima base in Arabia. Nell'avvicinarci alla lacerazione consumatasi all'interno della NATO, è d'obbligo soffermarci prima su quella all'interno dell'Unione Europea. La divisione europea, a cui è stata posta ieri una prima pezza con il comunicato congiunto dei premier, nasce dal volere continuare a parlare con linguaggi e per interessi spesso diversi. La ritrovata solidarietà speciale di Londra con Washington avrebbe avuto motivo di non nascere senza l'adesione europea solo per il fatto che Londra è stata storicamente artefice e responsabile di un secolo di politica estera nella regione del Golfo. Se Parigi non può tirarsi fuori da queste responsabilità, è pur vero che la sua odierna linea, in partenza apparentemente attendista ma rivelatasi fermamente non interventista, ha dimostrato come possa far nascere una prossima capacità di "identità politica, diplomatica, militare" europea, grandeur francese a parte. Lascia perplessa la posizione ostinatamente e anticipatamente non interventista del cancelliere tedesco, che può sembrare in parte dettata da forti esigenze di politica interna, cioè di garantire la coesione della coalizione governativa. È da dare atto alla Germania di avere però adempiuto agli obblighi NATO senza incertezze e con speditezza. È necessario che queste tre Nazioni riescano a raggiungere un'intesa di fondo in cui si trovi sin dall'inizio associata anche l'Italia. Questa intesa non può che avere come sua base il recupero di credibilità dell'ONU e il recupero di un ruolo prestigioso e non conflittuale degli USA al suo interno. E' bene adoperarsi con gli alleati americani affinché non ritengano del tutto "cosa loro" la conduzione della politica NATO, di quella del WTO e dei partenariati politico-economoco-militari con le nazioni moderate del Vicino Oriente. Cosa c'entra in tutto questo l'organismo del commercio mondiale? È presto detto. Esso è uno strumento formidabile in mano al grande capitalismo americano, capitalismo che può adesso dettare "leggi" concorrenziali più esasperate e spietate per i colossi economico-finanziari europei. Ricostruire l'Iraq non significa ipotecare questa terra e questo popolo in perpetuo e inibire agli europei, ai giapponesi, ai russi ruoli di presenza attiva nel rilancio economico del Paese. L'appoggio giapponese e spagnolo all'impresa anglo-americana può avere un senso solo se visto in quest' ottica. E così quello italiano, più marginale ma non meno denso di significato. Infatti, anche il governo italiano ha adottato, per una necessaria uniformità di atteggiamenti e di linguaggi, le posizioni statunitensi e inglesi sulla presunta pericolosità del rais di Baghdad e sull'esigenza di porre termine ai suoi misfatti (ma l'Iraq è uno Stato sovrano e dei misfatti ormai restano solo i dolorosi e più o meno recenti ricordi su tutto quello che gli è stato davvero consentito negli anni di lungo terrore). Le questioni geopolitiche in ballo erano inevadibili e non rinviabili più oltre per gli strateghi statunitensi: l'occasione era più che propizia, unica. E di fronte a tutto questo, l'Europa si è presentata frammentata e senza una neppure larvata idea di che cosa siano le responsabilità planetarie e i "vuoti di potere" negli scenari di crisi di una grande potenza. Bush, per quanto ha rischiato e rischia ancora di essere incappato in uno sbaglio, ha avuto almeno la capacità di assumere una decisione definitiva, e di non tergiversare ancora, affermando che il ruolo della politica è quello di disfare nei momenti di crisi il giuoco del nemico. Giuoco del continuo rinvio e dei tatticismi snervanti che in termini di guerra psicologica possono solo esaltare e galvanizzare gli avversari oggi costituiti dalle masse islamiche più estremiste nel moto di avversione generalizzata all'Occidente. L'Italia ha evitato l'accentuazione di una deriva fra le due sponde dell'Atlantico con il suo appoggio agli USA, e al contempo ha evitato di produrre un vulnus nei rapporti fra le maggiori nazioni europee. Non ha perciò inviato uomini né mezzi. Una scelta apparentemente criticabile, sicuramente difficile da attuare, che richiede nervi saldi. Essa infatti si presta a facili obiezioni, soprattutto a quelle di natura demagogica. Va anche sottolineato il contributo dei Radicali guidati da Pannella, Capezzone e Bonino che hanno comunque contribito a creare condizioni di minore avversione alla "guerra americana". Ho già scritto che una delle novità inattese di queste prese di posizione sono proprio quella ispanica e quella italiana, nazioni per eccellenza e tradizione amiche e garanti dell'amicizia dei popoli arabi. Ho anche scritto, in altro contesto, a proposito dell'evoluzione dei dibattiti all'interno del Consiglio di sicurezza dell'ONU, come i giuochi potessero risultare conclusi a fine febbraio in favore degli americani che, pronti a sborsare cifre enormi, superiori a 15 miliardi di euro alla Turchia, avrebbero con eguale facilità elargito nei modi più diversi aiuti alle nazioni povere che siedono al Consiglio. E così non è stato. Ma, al di là dall'imprevedibilità di decisioni e azioni che talora paiono scontate in partenza, è bene ricordare a tutti noi e agli americani che il nostro appoggio conferma l'affidabilità internazionale del governo, il quale, senza fare pesare sugli americani la loro ostinata, assoluta contrarietà al nostro ingresso nel riformato Consiglio di sicurezza dell'ONU in qualità di membro permanente (la riforma del Consiglio è ancora oggi bloccata), ha ascoltato le parzialmente valide ma non palesi ragioni dell'alleato americano, e le ha condivise nella misura in cui ciò è risultato e risulta conciliabile con i più vasti interessi europei e dell'ancora più ampia comunità internazionale, che per noi coinvolge immediatamente e direttamente i Paesi del Mediterraneo e la Russia. E'bene quindi che a Washington si inizi a pensare e a ripensare anche a questo. E che si sappia prendere una netta posizione di distinzione di giudizio dall'amministrazione Clinton. Affinché cada il veto americano sull'Italia, ed essa possa entrare come membro permanente assieme al Giappone e alla Germania nel futuro Consiglio di sicurezza, preludio dell'ulteriore seggio unico per l'Unione Europea e di un più equlibrato modello di rappresentanza stabile di altre grandi nazioni come l'India, il Brasile, il Sud Africa.
Nella foto una delle pagine più vergognose di questi giorni pre-conflitto. Alle mainifestazioni organizzate dall'estrema sinistra si sventolano bandiere di Rifondazione e della Palestina in aperto disprezzo delle bandiere "democratiche" come quella americana o israeliana. In attesa degli esiti della guerra i primi sconfitti sono solo. I "pacifisti" no global.

Domenico Cambareri


PocketPC visualization by Panservice