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Latina. La guerra. Domenico Cambareri: «Pensiamo adesso al dopo Hussein a stelle
e strisce». Fuori dalla storia i primi sconfitti: i pacifisti
In base a quanto si era da tanti e anche da me anticipato, pure senza volere fare torto a
quanti si battevano e si battono ancora per le ragioni della pace a tutti i costi, la guerra
è in atto. Sarà con buona probabilità una guerra molto breve, un conflitto in cui davanti
all'esercito anglo-americano vi è solo uno spettro dell'esercito nemico o ancor meno, e non
ci sarà la presenza dei fantasmi della guerra chimico-batteriologica tanto evocati a pretesto.
Ci saranno semmai sacche di resistenza e, fino a che non vedremo le albe dell'appena entrata
primavera trapassare in quelle estive, il rischio di colpi di coda e di pericolosi e temuti
attacchi terrorisitici.
Il coinvolgimento della popolazione civile irachena negli scontri dovrebbe risultare minimo, e
auguriamoci perfino marginale. Forse per questo martoriato popolo si potrà dischiudere, dopo
decenni di colonialismo prolungato nelle forme più diverse e infine di regime dispotico, un
periodo di rinascita civile e di effettiva libertà politica. Ma perché questo possa accadere,
bisognerà affidare la conduzione di questa delicatissima fase transitoria alle Nazioni Unite
e alla Lega araba.
Ridare fiducia al più importante organismo mondiale rappresenta per l'amministrazione
americana un passo obbligato, a meno di non volere mandare definitivamente in crisi l'ONU,
gli equilibri planetari e la lunga, sodale alleanza atlantica. Cose assolutamente impensabili
per la politica americana. In tutto questo, è anche da capire che gli Stati Uniti non
rinunceranno mai a svolgere un ruolo di gestione e operativo "sovradimensionato", non fosse
altro per il fatto che sono stati loro a condurre quest'attacco e ad affrontare spese che si
aggirano sui novecentomila miliari di vecchie lire. Ciò indubbiamente e soprattutto - è bene
ribadirlo senza ipocrisie - è stato fatto per conseguire il simultaneo obiettivo di
esercitare una capacità di controllo e di gestione di crisi in tutto il Vicino e Medio oriente,
ivi comprese tutti gli Stati dei popoli turchi dell'Asia centro-occidentale e orientale,
e di diretta interdizione di pericoli convenzionali, e di attività "non convenzionali",
in particolare di tipo terroristico.
Raggiunto l'obiettivo geopolitico primario (enormemente più importante del ruolo che i
giacimenti petroliferi iracheni possono svolgere in favore del fabbisogno energetico
dell'economia USA su cui spesso si parla a sproposito) con il contestuale abbattimento
del regime di Saddam Hussein e l'instaurazione di una "occidentalizzazione" del modello
politico da esportare in prospettiva in un futuro non prossimo nelle regioni vicine,
gli USA ritengono di potere dare l'avvio a una sistematica lotta senza quartiere ai gruppi
terroristici che minacciano la loro sicurezza dalle sterminate e remote plaghe
asiatico-islamiche.
In queste ore di guerra, tuttavia, risulta quanto sia stata affrettata e rischiosa la
mossa americana sul piano dell'organizzazione tecnico-logistica dei rifornimenti,
soprattutto dopo che la Turchia non ha autorizzato l'attacco delle truppe anche dal suo
territorio. Risulta anche scabroso e certamente rischioso l'utilizzo di truppe turche
(si parla di oltre trentamila uomini) per controllare ed eventualmente occupare in via
temporanea le aree del Curdistan iracheno attorno a Mossul, per garantire la difesa dei
pozzi di petrolio. Non si dimentichi infatti che i turchi sono fra i più odiati nemici
dei curdi.
Nei prossimi mesi, una fra le cose più importanti da osservare per gli americanI, gli europei,
i giapponesi e... i russi (in questi anni e ancor più oggi ottimi fornitori di tecnologia
nucleare) e i cinesi (ottimi fornitori di tecnologia missilistica) sarà l'atteggiamento,
ufficiale e ufficioso, del regime degli ayatollah persiani. E con esso, osservare quale
sarà la politica interna saudita, dopo che gli Stati Uniti ritireranno l'ultimo aviatore
dall'ultima base in Arabia.
Nell'avvicinarci alla lacerazione consumatasi all'interno della NATO, è d'obbligo soffermarci
prima su quella all'interno dell'Unione Europea. La divisione europea, a cui è stata posta
ieri una prima pezza con il comunicato congiunto dei premier, nasce dal volere continuare a
parlare con linguaggi e per interessi spesso diversi. La ritrovata solidarietà speciale di
Londra con Washington avrebbe avuto motivo di non nascere senza l'adesione europea solo per
il fatto che Londra è stata storicamente artefice e responsabile di un secolo di politica
estera nella regione del Golfo. Se Parigi non può tirarsi fuori da queste responsabilità,
è pur vero che la sua odierna linea, in partenza apparentemente attendista ma rivelatasi
fermamente non interventista, ha dimostrato come possa far nascere una prossima capacità di
"identità politica, diplomatica, militare" europea, grandeur francese a parte. Lascia
perplessa la posizione ostinatamente e anticipatamente non interventista del cancelliere
tedesco, che può sembrare in parte dettata da forti esigenze di politica interna,
cioè di garantire la coesione della coalizione governativa. È da dare atto alla Germania di
avere però adempiuto agli obblighi NATO senza incertezze e con speditezza. È necessario che
queste tre Nazioni riescano a raggiungere un'intesa di fondo in cui si trovi sin dall'inizio
associata anche l'Italia. Questa intesa non può che avere come sua base il recupero
di credibilità dell'ONU e il recupero di un ruolo prestigioso e non conflittuale degli USA
al suo interno. E' bene adoperarsi con gli alleati americani affinché non ritengano del tutto
"cosa loro" la conduzione della politica NATO, di quella del WTO e dei partenariati
politico-economoco-militari con le nazioni moderate del Vicino Oriente. Cosa c'entra in
tutto questo l'organismo del commercio mondiale? È presto detto. Esso è uno strumento
formidabile in mano al grande capitalismo americano, capitalismo che può adesso dettare
"leggi" concorrenziali più esasperate e spietate per i colossi economico-finanziari europei.
Ricostruire l'Iraq non significa ipotecare questa terra e questo popolo in perpetuo e inibire
agli europei, ai giapponesi, ai russi ruoli di presenza attiva nel rilancio economico del Paese.
L'appoggio giapponese e spagnolo all'impresa anglo-americana può avere un senso solo se
visto in quest' ottica. E così quello italiano, più marginale ma non meno denso di
significato.
Infatti, anche il governo italiano ha adottato, per una necessaria uniformità di
atteggiamenti e di linguaggi, le posizioni statunitensi e inglesi sulla presunta
pericolosità del rais di Baghdad e sull'esigenza di porre termine ai suoi misfatti (ma
l'Iraq è uno Stato sovrano e dei misfatti ormai restano solo i dolorosi e più o meno
recenti ricordi su tutto quello che gli è stato davvero consentito negli anni di lungo
terrore). Le questioni geopolitiche in ballo erano inevadibili e non rinviabili più
oltre per gli strateghi statunitensi: l'occasione era più che propizia, unica. E di fronte
a tutto questo, l'Europa si è presentata frammentata e senza una neppure larvata idea
di che cosa siano le responsabilità planetarie e i "vuoti di potere" negli scenari di
crisi di una grande potenza. Bush, per quanto ha rischiato e rischia ancora di essere
incappato in uno sbaglio, ha avuto almeno la capacità di assumere una decisione definitiva,
e di non tergiversare ancora, affermando che il ruolo della politica è quello di disfare
nei momenti di crisi il giuoco del nemico. Giuoco del continuo rinvio e dei tatticismi
snervanti che in termini di guerra psicologica possono solo esaltare e galvanizzare gli
avversari oggi costituiti dalle masse islamiche più estremiste nel moto di avversione
generalizzata all'Occidente.
L'Italia ha evitato l'accentuazione di una deriva fra le due sponde dell'Atlantico con il
suo appoggio agli USA, e al contempo ha evitato di produrre un vulnus nei rapporti fra
le maggiori nazioni europee. Non ha perciò inviato uomini né mezzi. Una scelta apparentemente
criticabile, sicuramente difficile da attuare, che richiede nervi saldi. Essa infatti si
presta a facili obiezioni, soprattutto a quelle di natura demagogica. Va anche sottolineato
il contributo dei Radicali guidati da Pannella, Capezzone e Bonino che hanno comunque contribito a creare
condizioni di minore avversione alla "guerra americana". Ho già scritto che una delle novità
inattese di queste prese di posizione sono proprio quella ispanica e quella italiana,
nazioni per eccellenza e tradizione amiche e garanti dell'amicizia dei popoli arabi.
Ho anche scritto, in altro contesto, a proposito dell'evoluzione dei dibattiti all'interno
del Consiglio di sicurezza dell'ONU, come i giuochi potessero risultare conclusi a
fine febbraio in favore degli americani che, pronti a sborsare cifre enormi, superiori
a 15 miliardi di euro alla Turchia, avrebbero con eguale facilità elargito nei modi più
diversi aiuti alle nazioni povere che siedono al Consiglio. E così non è stato. Ma, al
di là dall'imprevedibilità di decisioni e azioni che talora paiono scontate in partenza,
è bene ricordare a tutti noi e agli americani che il nostro appoggio conferma
l'affidabilità internazionale del governo, il quale, senza fare pesare sugli americani
la loro ostinata, assoluta contrarietà al nostro ingresso nel riformato Consiglio di
sicurezza dell'ONU in qualità di membro permanente (la riforma del Consiglio è ancora
oggi bloccata), ha ascoltato le parzialmente valide ma non palesi ragioni dell'alleato
americano, e le ha condivise nella misura in cui ciò è risultato e risulta conciliabile
con i più vasti interessi europei e dell'ancora più ampia comunità internazionale, che
per noi coinvolge immediatamente e direttamente i Paesi del Mediterraneo e la Russia.
E'bene quindi che a Washington si inizi a pensare e a ripensare anche a questo. E che
si sappia prendere una netta posizione di distinzione di giudizio dall'amministrazione
Clinton. Affinché cada il veto americano sull'Italia, ed essa possa entrare come membro
permanente assieme al Giappone e alla Germania nel futuro Consiglio di sicurezza,
preludio dell'ulteriore seggio unico per l'Unione Europea e di un più equlibrato
modello di rappresentanza stabile di altre grandi nazioni come l'India, il Brasile,
il Sud Africa.
Nella foto una delle pagine più vergognose di questi giorni pre-conflitto. Alle
mainifestazioni organizzate dall'estrema sinistra si sventolano bandiere di Rifondazione
e della Palestina in aperto disprezzo delle bandiere "democratiche" come quella americana
o israeliana. In attesa degli esiti della guerra i primi sconfitti sono solo.
I "pacifisti" no global.
Domenico Cambareri
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