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Priverno. Come uscire dalla violenza terroristica. Maurizio Calvi: «Dio in sette giorni creò un mondo di pace. L'ottava notte invece è dell'uomo»

«In un bellissimo verso del 1972, Jorge Luis Borges dichiara di temere che il futuro (che declina) sia “un profondo corridoio di specchi, indistinti, oziosi e decrescenti”. Mentre percorriamo questo corridoio infinito non possiamo che vedere noi stessi, sempre uguali, con i nostri difetti e con i nostri pregi, scorrere “nella penombra che precede il sonno”. Non possiamo che vedere “la ripetizione della vanità”. La guerra che facciamo è sempre la stessa, non c’è niente di nuovo nel nostro volto riflesso ancora nello specchio della storia. È sempre la stessa guerra, è sempre lo stesso uomo nella stessa carlinga dello stesso aereo. È sempre lo stesso Caino che risolve sempre lo stesso problema della proprietà e del possesso della terra portando il fratello a combattere nei campi. L’uomo continua a riflettere il suo volto ambiguo di amore e odio nel profondo corridoio di specchi della storia insaziabile».
Sono parole di Maurizio Calvi, presidente del Ce.A.S. ed organizzatore della conferenza internazionale «Come uscire dalla violenza terroristica. Analisi comparata dei processi di pace». «Tuttavia Borges era ottimista» - prosegue - «Egli vedeva ancora un rettilineo. E se invece la storia fosse un labirinto di specchi dove, per uscire, dobbiamo continuamente competere con l’immagine riflessa di noi stessi? Ogni conflitto, dalla lite familiare alla guerra nucleare, è così: la lotta contro la nostra immagine che rifiutiamo. Odiamo l’amico che ci tradisce perché noi abbiamo tradito; soffriamo per una assenza perché siamo stati assenti; siamo atterriti dal padre che cerca di difendere il figlio dalle pallottole di una qualsiasi sommossa, acquattato nella rientranza di cemento di un muro, perché siamo noi quel padre, nostro potrebbe essere quel figlio e nostre le gambe su cui si accascia il giovane corpo ucciso da altro padre, che siamo sempre noi, che voleva difendere altri figli, che sono sempre i nostri. Non possiamo uscire dal labirinto degli specchi della storia perché non sappiamo accettare noi stessi e rifiutiamo l’immagine che vediamo, combattiamo un nemico che è soltanto l’apparenza di ciò che siamo.
Non c’è nulla di nuovo in tutto questo, se non la pervicace volontà di trovare il percorso che ci conduca fuori, l’impercettibile porta che ci faccia finalmente uscire. Questo è il senso del nostro lavoro, oggi, qui: trovare una strada, se ci fosse, per uscire dal terrorismo, dalla violenza e dalla loro permanente insorgenza. Fino a qualche anno fa il mondo era in preda alla “letteratura dell’allegra incoscienza”. Il crollo del sistema sovietico sotto il peso simbolico del muro di Berlino, aveva lasciato troppi orfani e troppi esaltati fautori. Molti di questi moltiplicatori comunicativi sono andati in giro a proporre l’immagine di uno sviluppo escatologico del mondo, cioè “il paradigma della fine”, l’idea che tutto stesse finendo, in qualche modo morendo, che il mondo fosse giunto sul crinale ripido di una rapida conclusione. Gli analisti, gli opinion makers, gli intellettuali e gli scienziati politici e sociali ritenevano che ormai tutto fosse in qualche modo concluso e che il mondo si fosse finalmente normalizzato dentro la espansione automatica e costante della democrazia liberale occidentale. Se aveva ceduto la superpotenza sovietica, chi mai avrebbe potuto resistere ed eventualmente contrastare l’irrefrenabile processo di democratization du monde? Tante cose improvvisamente finivano. Finiva la storia, finivano i sistemi contrapposti, finiva il comunismo, finivano i blocchi, finivano gli schieramenti, le eversioni, le illusioni, le utopie, le mistificazioni, finivano le parti che avevano diviso il mondo e finiva il mondo dalle parti divise. Potevano finire le nazioni anche senza che finissero le nazionalità. La globalizzazione poteva diventare globalità in una unica megalopoli multietnica, dove le identità culturali si ritrovavano, spesso nelle tradizionali forme, organizzate in territori altri, distanti e distinti da quelli di provenienza. Internet rappresentava il nuovo Prometeo, l’uomo liberato dal peso delle cinture di sicurezza e dall’ostruzionismo delle barrire politiche. Si aveva la percezione di una transizione pacificata verso un futuro non definito e difficilmente definibile. In poco più di dieci anni abbiamo vissuto la fine di un universo simbolico. Ma, quando qualcosa finisce, significa che ne inizia un’altra. Tutti hanno creduto che la fine di uno dei due contendenti, quasi per abbandono stremato dalla crisi economica, significasse inevitabile e automatica accettazione di una globalizzazione senza freni. Noi abbiamo vissuto il paradigma della fine, o dello sviluppo escatologico, senza la formulazione di un paradigma dell’inizio, o dello sviluppo eterologico, quello sviluppo cioè che va a cercare nel mondo le qualità che esso ancora non possiede. L’11 settembre 2001, abbiamo dovuto prendere coscienza che, assieme al resto, era finito anche l’equilibrio nella politica internazionale e che, anzi, ci trovavamo improvvisamente di fronte a una nuova minaccia di destabilizzazione planetaria. Convinti della superiorità conclamata della civiltà occidentale ci siamo illusi che ormai fosse soltanto una questione di tempo per il definitivo processo di assimilazione ai valori del mercato autoregolato. L’Occidente si è estraniato dall’universo che avrebbe dovuto essere occidentalizzato. Oltre la nostra globalizzazione c’era soltanto periferia che presto sarebbe stata globalizzata. Abbiamo dovuto capire, chi prima chi dopo l’attentato di New York, che la caduta del criterio di legittimazione dell’equilibrio, sul quale erano state edificate tutte le istituzioni internazionali successive alla seconda guerra mondiale, di nuovo costringeva gli esseri umani a vivere “sotto l’incubo di un uragano che potrebbe scatenarsi ad ogni istante con una travolgenza inimmaginabile”. “Giacchè le armi ci sono; - diceva il Papa buono - e se è difficile persuadersi che vi siano persone capaci di assumersi la responsabilità delle distruzioni e dei dolori che una guerra causerebbe, non è escluso che un fatto imprevedibile e incontrollabile possa far scoccare la scintilla che metta in moto l’apparato bellico”. Naturalmente c’è molto di più. È un vero e proprio trattato politico sulla legittimità del potere e sull’idea di autorità all’interno degli Stati. C’è l’invito necessario a perseguire un ordine mondiale costruito su quattro pilastri: verità, giustizia, solidarietà e libertà. Senza essere fondata su queste quattro colonne dell’ordine, “la pace rimane solo un suono di parole”, un rumore di fondo. Alla fine ci siamo trovati dentro “la prima guerra multiculturale dell’era globale”, come l’ha definita Kaled Fouad Allam, senza capire la struttura tribale del potere nella complessa società irakena e il rapporto parentale nel sistema di solidarietà e coesione sociale di quel regime. Il mondo arabo laico si è quasi completamente dissolto. Il mulk è un processo di legittimazione di tipo dinastico che si mantiene su un mix di coercizione ed elargizione, che reclama una assunzione di responsabilità di fronte ad una minaccia esterna e ottiene un consenso per identificazione, fino alla santificazione del martirio. Oggi, il centro di gravità della politica araba si è ormai definitivamente spostato verso la religione. Le dichiarazioni politiche di governi che cercano seguire i sussulti emotivi dei loro popoli mostrano che la religione è ormai diventata un criterio di legittimazione, uno strumento per essere accettati come guida. La determinante valenza dei martiri nella strategia militare del terrorismo nel mondo islamico si comprende soltanto con la funzione di legittimazione politica della religione. Senza i kamikaze non c’è guerra e senza guerra loro non esistono. Loro si considerano il nucleo morale e spirituale di tutta la religione islamica, sentono di essere i veri e puri difensori del sacro suolo dell’Islam in quanto unici eredi della parola dell’ayatollah Komeini. Il fatto che gli analisti militari aglo-americani si aspettassero una adesione popolare alla loro azione di liberazione dal tiranno di Bagdad e che invece, nel momento stesso in cui distribuivano i viveri, dovevano constatare una più forte esaltazione dell’immagine di Saddam Hussein, non dimostra soltanto una loro incapacità di “interpretare il codice culturale del nemico”. Dimostra la loro estraneazione dai processi politici del mondo. Dimostra che la monocultura tecnica e tecnologica degli standard produce un surplus soffocante di informazioni che finisce per ostruire la comunicazione senza codice tra soggetti e trascura “la dimensione umana nello svolgimento della vicenda bellica”. Vedete come è fuzzy la politica della complessità: un surplus di informazioni che determina un deficit di interpretazione. Per questo vorremmo che il mondo fosse meno razionale e un poco più ragionevole. Era inimmaginabile sfida ostentata la piatta paura illuminata a morte di Bagdad che aspettava di essere bombardata, il terrore che sorregge il potere del suo tiranno, di ogni tiranno e di ogni terrorismo, nel pensiero notizia dei mass media, che è sempre meno pensiero ragione, che fa squillare allegramente la pubblicità tra i corpi dei bambini curdi bruciati dal gas etnico, tra le macerie delle baracche palestinesi demolite dagli israeliani, tra i pezzi di esplosivo e carne degli uomini bomba appiccicati sui corpi dei feriti, senza saper distinguere quale è il sangue che ti sporca, se il tuo o quello che ti è rimbalzato addosso da un altro martire nel labirinto degli specchi. Il mondo è pieno di assurdità drammatiche e dolorose, di commentatori che ostentano competenza di pace in aspri conflitti di parole, politici che insultano per non essere insultati ogni volta che ci spiegano scenari complicati che quasi mai corrispondono alla dura realtà dei fatti storici. Ci vorrebbe un po’ più di silenzio. Siamo impressionati da quante dichiarazioni, commenti, competenze ed esperienze compaiono improvvisamente dal nulla di fronte ad ogni attentato terroristico, già pronte a descriverci con minuzie di particolari non verificabili il risico multimediale delle variabili geopolitiche del conflitto. Con tutti questi esperti in bella mostra, come ha fatto a sbagliare l’approccio tattico l’impressionante apparato bellico anglo-americano? Forse si poteva chiedere ausilio agli abituali frequentatori di qualche ricorrente trasmissione televisiva. In realtà, c’è una dimensione silenziosa dell’azione politica, fatta di intuizioni, di percezioni sensitive, relazioni comunicative instabili che è molto più profonda e proficua di qualsiasi documentazione informativa. Aldo Moro, abituato a mediare fra opposti estremizzati, amava ripetere che la politica è un mestiere che sembra fatto di nulla. Occorre agire ogni giorno, ogni giorno parlare con qualcuno che ti aiuti a capire, che ti sappia tradurre, a conquistare un consenso, a costruire una connessione, un linkaggio, una condivisione. Questo lavoro che sembra di nulla, che non appare, che non si vede, è una delle essenze dell’azione politica ed è l’unica attività preventiva credibile. Per determinarsi, quella condizione ha bisogno di pazienza, di un lavoro di convincimento e di confronto, una tessitura comunicativa occulta eppure energica e salda. Ho l’impressione, invece, che dentro il tubo catodico i protagonisti siano superati dagli eventi e che tutti viviamo sul crinale di un baratro infinito. Il precipizio è al nostro fianco, mentre cerchiamo di viaggiare sulle imprendibili onde magnetiche dell’etere. Non c’è dubbio che, di fronte alla conclusione dell’ordine mondiale costruito, dopo Yalta, sull’equilibrio delle superpotenze, l’unica nazione in grado di fronteggiare le esigenze di sicurezza del pianeta sono stati gli USA. Dopo una incomprensibile pausa in cui si sono lasciati sopravanzare conflitti locali nel vuoto dell’azione della Organizzazione delle Nazioni Unite, gli americani si erano dati un nuovo ruolo regolatore di equilibrio nel globale sistema delle relazioni politiche con la dottrina clintoniana della polizia internazionale. Concorrevano ad essa una serie rilevante di soggetti internazionali che, anche indipendentemente dalla formalizzazione della decisione, potessero assicurare un consenso effettivo e quindi una legittimazione alla azione repressiva contro gli agenti della destabilizzazione. Uscito di scena Clinton, il nuovo Presidente George Bush ha bloccato questa politica troppo impegnativa per le risorse americane e ha ricondotto la politica estera della unica superpotenza ormai attiva nello scenario internazionale alla dimensione della difesa del giardino di casa, alla tutela dei confini propri e dei paesi alleati nel processo di globalizzazione. La dottrina dello scudo stellare, verso cui sono stati indirizzati cospicui finanziamenti nella prima fase della politica di sicurezza della nuova amministrazione, aveva questo semplicissimo significato di dimenticare la città e occuparsi del proprio giardino, al limite del proprio quartiere. Finché gli americani non si sono resi drammaticamente conto che ormai per loro, questo ritorno a casa, questo estraniarsi dal mondo non era più possibile. Il crollo delle Twin Towers ha svelato a quella nuova amministrazione che non può disinteressarsi del conflitto israeliano/ palestinese, delle situazioni irrisolte del pianeta nel mondo arabo, in Cina, in Africa senza subirne violente conseguenze. Non si può salvare il proprio giardino se la città brucia. Alla fine quel fuoco divorerà anche la nostra casa. Lo scudo stellare, per quando costoso e tecnologicamente sofisticato, non difendeva dalla furia irruenta di alcuni temperini nelle mani del fondamentalismo religioso. In una città vandalica, il nostro giardino sarà prima o poi sradicato dalla incomprensione e dall’odio dei vandali che ci osservano curarlo, magari spendendo per il concime molti più soldi del loro pasto quotidiano. La dottrina della polizia internazionale, che dava alla comunità politica democratica guidata dagli USA un ruolo regolatore del criterio di legittimazione dell’equilibrio nella soluzione dei problemi politici per la sicurezza del pianeta, non poteva essere sostituita dalla dottrina dello scudo spaziale, che mirava a garantire sicurezza parziale al popolo americano e ai compartecipanti alla globalizzazione, lasciando le periferie nella completa anarchia. La parzialità della politica estera di Bush ( e non la sua ambizione), la sua riduzione entro il confine di interessi di area e nazionali è stata la vera causa del disequilibrio entro cui il mondo è precipitato. Dopo lo shock dell’11 settembre 2001, agli occhi degli americani si è disvelata la inconsistenza di uno scudo che non poteva proteggere dal sabotaggio dei propri aerei. Quell’attentato era stato elaborato molti anni prima. Perché non lo avevano scatenato? Perché c’era sempre stato un problema di opportunità politica, nel ruolo planetario che gli USA hanno assunto da Carter in poi, che bloccava la mania assassina di un invasato della fede. Di fronte alle macerie dei propri palazzi e della propria politica, l’entourage dell’amministrazione americana ha reagito come poteva e come sapeva. Avevano la forza delle armi e degli eserciti e hanno reagito con la forza delle armi e degli eserciti, passando dalla ingerenza alla invadenza, dalla adesione alla invasione. In questo modo, gli USA hanno perso il ruolo di garante della sicurezza della comunità internazionale e del suo equilibrio che ancora ai tempi della Bosnia e, al limite, dell’Afghanistan, gli veniva riconosciuto. Sullo schema di Minority Report hanno inaugurato la dottrina della guerra preventiva che ha cancellato gli Istituti di pacificazione e introdotto definitivamente discrezionalità e schizofrenia nel mondo. Oggi, la guerra al nemico sionista è un tutt’uno con la guerra al nemico americano; la complessità nel mondo si è ridotta a due contendenti. Alcuni analisti arabi iniziano a pensare che la lobby israeliana abbia soggio- gato gli USA che tentano di organizzare l’intera regione per servire Israele. Non c’è più ragione. C’è soltanto la forza. Gli USA diventano gli unici arbitri in grado di poter decidere chi ha la legittimità per poter esistere e chi invece diventa una minaccia e deve essere eliminato. Il resto del mondo è fatto di comprimari. Una idea napoleonica delle relazioni internazionali. Bush passa violentemente da una operazione necessaria di polizia politica per la sicurezza del pianeta a una posizione di pulizia militare delle potenziali minacce alla sicurezza americana. E alla fine di questa irruenta reazione Forse, dopo Berlino, l’Occidente si aspettava il riconoscimento istintivo del suo superiore stile di vita. Il risveglio dalle Sue illusioni infantili sarebbe dovuto avvenire con il tonfo rumoroso degli aerei sulle torri. Non è stato così. Questa guerra, per il fatto che avviene e per come av- viene, dimostra che siamo una volta ancora sprofondati nel pesante sonno della ragione e nei suoi incubi. Quando finalmente ci sveglieremo dovremo riconoscere che questa, del silenzio operoso per il ripristino della legittimità degli istituti internazionali di pacificazione, è la prima, più importante strada per uscire dal terrorismo e dalla sua insorgenza. La seconda strada è quella dello sviluppo. Non c’è sicurezza senza sviluppo e, viceversa, non c’è sviluppo senza sicurezza. Certo se guardo Saddam Hussein e il suo terribile potere sulla vita di intere popolazioni non posso che inorridire e avere l’impressione che questa azione militare fosse inevitabile. Ma non è così. Se avessimo seguito la strada dello sviluppo non sarebbe stato così. Per ridurre la violenza nel mondo non è possibile arrivare mai a un punto di irreversibilità politica. Prima di arrivare allo snodo insolubile se attaccare o no uno Stato Canaglia, è possibile agire politicamente, riformare, intervenire nei conflitti strategici e tentare politiche di pacificazione. Bisogna inaugurare un welfare planetario, che riduca la condizione di warfare delle relazioni internazionali. Non è possibile lasciare il conflitto palestinese/israeliano autoregolarsi e poi lamentarsi se Saddam sovvenziona le famiglie dei martiri di Amas. Talvolta quella morte è anche un modo per far uscire dalla fame un intero nucleo famigliare. La sicurezza nella democrazia va tutelata ogni giorno con la sostituzione del concetto di globale con quello di planetario e con una politica di riforme sociali ed economiche che garantisca lo stesso sviluppo che fu necessario ai proletarizzati della prima industrializzazione per accettare le fondamenta pacificate delle nostre democrazie. C’è un universo proletarizzato nel mondo che deve essere immesso nella ricchezza delle democrazie globali con un compromesso di pacificazione planetario. Questo sforzo è ancora uno sforzo politico. Infatti, le ipotesi avanzate dai pensatori economici classici che il commercio internazionale reclamasse la pace, oggi non è più vera. Anzi, è semmai vero il contrario. Un certo commercio per espandersi in nuovi mercati necessita della omogeneità delle condizioni di sfondo relative alla funzione del mercato e alla certezza della contrattualistica e del diritto. Una guerra può anche essere funzionale, quando non è possibile un accordo, per l’apertura alla propensione al consumo di un miliardo di persone ancora nella condizione della soddisfazione dei bisogni di sopravvivenza, siano essi musulmani o cinesi. Non dico e non credo che sia soltanto e semplicisticamente una questione relativa all’approvvigionamento del petrolio. Credo che sia un problema relativo al dollaro, e c’è una grandissima differenza. Una nazione non fa una guerra per lucrare sul prezzo della benzina. La fa per imporre ancora la propria moneta come prevalente moneta di scambio. E per far questo occorre una supremazia politica e militare per il controllo della geopolitica internazionale, specialmente dove il volume degli scambi è il più corposo e dove, per forza di cose, una enorme folla solitaria etero diretta sarà costretta a commerciare in dollari. Non dobbiamo dimenticare che ultimamente la saldezza e la supremazia del dollaro americano era fortemente minacciata dalla concorrenza dell’Euro e dello Yen Giapponese. Soltanto nel gennaio 2003 il dollaro era giunto ai minimi triennali contro l’Euro, arrivato a costare 1, 0535, e contro lo Yen, giunto ad un massimo di 118,68. Il grande disegno necessario a rilanciare l’economia tarda e le elezioni politiche sono sempre in agguato. Che cosa sarebbe successo se, sulla base di un recuperato valore e di una stabilità delle tensioni valutarie, fosse risultato complessivamente più utile abbandonare il dollaro? La paura si impadroniva della borsa. Forse qualcuno ancora oggi pensa che, senza l’espansione in nuovi mercati, tutto il sistema della globalizzazione è profondamente minacciato. E i mercati nuovi sono dove non ci sono, nelle piattaforme continentali affollati di gente che ancora deve iniziare a consumare. Una o più porte aperte in quelle aree sono il presupposto per far quadrare i conti. Ben venga chi pensa così, se tutto questo significherà far uscire dalla miseria il genere umano che continua a morire di sete. Lo sviluppo è l’unica condizione di controllo dei conflitti. Una seconda strada per uscire dalla violenza politica e dalla sua insorgenza è ripristinare in altri continenti il metodo marginal funzionalista utilizzato da Jean Monnet per la integrazione delle nazioni europee; perché, per certi versi, è molto più difficile esportare la democrazia che i soldi. La democrazia non è un atto, è un processo, a cui ciascuno giunge con la propria identità. L’unica cosa che possiamo fare è costruire le condizioni economiche sociali e culturali affinché questo processo avanzi, da solo, il più rapidamente possibile. E questo ritmo può essere assicurato soltanto dalle politiche economiche dello sviluppo, dalla sottrazione alla morte assiderata di intere generazioni, eppure in grado di auto governarsi e di auto emanciparsi. In questo l’Europa potrebbe svolgere un grande ruolo mediterraneo se smette il balletto ottocentesco delle sue sovranità, dei suoi nazionalismi e dei suoi protagonismi. Invece, si avverte l’impressione che l’Unione Europea voglia restare il solito gigante economico dai piedi d’argilla. Si ha il sospetto che nonostante le ampie risorse economiche e tecnologiche, l’Europa voglia sentirsi sicura senza pagarne il prezzo. Questa preoccupazione ostacola il ruolo di equilibrio che gli Europei potrebbe svolgere anche nei confronti degli americani. Purtroppo i sospetti bruciano i rapporti, mentre per gestire il dopo guerra è indispensabile ripristinare un clima di fiducia, altrimenti sarà difficile far rientrare “nel sano alveo del diritto internazionale” le peggiori inclinazioni dell’azione politica dell’attuale amministrazione statunitense. Inoltre, il risultato di questo rifiuto europeo a dotarsi di una sua autonomia politica, utile nell’epoca della guerra fredda, può ripercuotersi come fattore rischio economico. Ormai è chiaro che nel mondo l’economia è funzione della politica. Senza una influenza politica non vi è nemmeno una affluenza economica. “Il capitalismo - diceva Olof Palme - è una pecora che va tosata”. La pecora verrà tosata da chi avrà le forbici per farlo. Senza una politica planetaria il sistema economico non produrrà i vantaggi dello sviluppo. Potrà restare nell’irrefrenabile crescita, caratterizzata dalla inutile accumulazione della ricchezza nelle mani di pochi. Una Europa di produrre le forbici, cioè in grado di investire sulla sua autonomia politica, potrebbe farsi garante del welfare planetario necessario per eliminare i vincoli allo sviluppo. Naturalmente, però, di fronte alla emergenza umanitaria, chiunque lo faccia è comunque ben accolto in un pianeta che ha vitale esigenza di estendere il benessere per garantirsi definitivamente maggiori livelli di sicurezza. La logica di Clausewitz non basta più, né sul piano militare, né sul piano politico, per sopravvivere nel complesso sistema delle relazioni internazionali. Nel suo ultimo libro sul terrorismo, Alan Dershowitz, riporta una decisione recente della Corte Suprema di Israele, “in base alla quale si proibisce l’uso di pressioni fisiche volte a procurarsi informazioni ritenute necessarie alla prevenzione”. Il presidente di quella corte, Aharon Barak, nel commentare la sentenza ha dichiarato: “Nonostante debba combattere con una mano legata dietro la schiena, la democrazia ha comunque il coltello dalla parte del manico”. Direi che proprio perché ha una mano legata dietro la schiena, la democrazia continua ad aver il coltello ben saldo dalla parte del manico. Forse di volta in volta sceglierà quale mano usare, ma proprio perché ha il senso del limite la democrazia mantiene una forza attrattiva irresistibile. Senza quel limite, la democrazia si trasforma in una nuova forma di totalitarismo, ben più pericoloso perché, in qualche modo, legalizzato. Trovo, invece, che l’uomo contemporaneo viva in una sua dismisura, fuori limite, fuori dimensione. Basta guardare pochi reportage televisivi per rivedere la valle del caos da cui proveniamo. La democrazia aveva questo di unico, la capacità di porre dei limiti indispensabili per se stessa e per trasformare gli uomini in cittadini. E invece, da qualche anno a questa parte, non sappiamo più cogliere i limiti del nostro stesso agire, ci siamo liberati entrambi le mani e rischiamo di precipitare nel caos della violenza assoluta. Certo il gioco dei terroristi è di farci superare l’ultimo limite, quello della morte. Per produrre il vuoto i terroristi devono innalzare continuamente il loro effetto deterrenza e costringerci ad andare oltre il limite della vita. Ma noi dobbiamo sfuggire a questa sindrome, evitare il paradosso di una violenza autoreferenziale che genera se stessa con il solo obiettivo di portare l’uomo oltre l’uomo, verso una totale autodistruzione. Fino al punto in cui perderemo il coraggio di continuare a cercare la strada d’uscita e moriremo atterriti dal riflesso di noi stessi. A quel punto, definitivo, di non ritorno, non devo arrivare. A quel punto ogni decisione è già una sconfitta. Sono sconfitti coloro che alzano la carica di esplosività del sistema per ridurne il rischio; sono sconfitti coloro che subiscono in forma di bombe la pace della democrazia; sono sconfitti i comodi fautori del rifiuto senza soluzione. La terza strada da percorrere per sfuggire alla violenza politica psicotica di massa è allora quella del limite da dover ripristinare, il confine che non supereremo senza perdere la nostra identità: perché, questa dismisura, che vedo amplificata nel labirinto degli specchi i cui ci riflettiamo, alla fine ci fa perdere soltanto il senso delle cose. Sarà vero, come diceva Durrenmatt, che l’uomo è un predatore che governa il mondo con il cervello di un bambino? Magari. Se fosse davvero bambino, quell’uomo avrebbe ancora possibilità di apprendere. Invece talvolta ho l’impressione che viva nella condizione della dipendenza da crack di potere tecnico-scientifico. L’infinita potenza di cui si ciba produce effetti allucinogeni che gli spappolano il cervello e gli decompongono il corpo. Non sa quando deve fermarsi, preso nel vortice di una irrefrenabile vendetta contro la sua presenza nel mondo. Tuttavia, io credo nel progresso e non riesco ad immaginare una democrazia dalle mani slegate. Preferisco rischiare, preferisco continuare a credere che, quando avrò ridotto il mio avversario alla ragione, non lo ucciderò, perché c’è un limite oltre cui non posso andare e in quel limite risiede intera la mia forza, il senso della mia esistenza sul pianeta. Quel limite, della tecnologia invasiva, della scienza che ci trasforma in cavie, del potere che schiavizza, della ricchezza che non si distribuisce, della indifferenza verso l’altro volto di me, deve essere l’essenza di una nuova politica planetaria. Di fronte a voi, che tratterete con professionismo e dovizia di particolari i vari aspetti del fenomeno, voglio ripro- porre, senza imbarazzo, il tema insuperabile dell’etica politica. La politica, l’etica politica di cui abbiamo incommensurabile bisogno, è questa capacità di mantenere il coltello dalla parte del manico e una mano legata, di non andare oltre, di capire che l’immagine che si riflette negli specchi è ancora nostra. Senza un’etica della politica, a chi daremo il nostro passato? A chi e quale passato consegneremo alle future generazioni, senza una coscienza del limite, ammutoliti dalla violenza di un elicottero apache o coperti dalla polvere di un carro armato che corre disperatamente nel deserto? Il più grande gesto d’amore è donare il passato. Dio, il dio di tutti, anche di chi non lo vuole, lo ha fatto con noi. Per sei giorni ci ha costruito un mondo pacificato. Il settimo si riposò. E quando quel lavoro era diventato un passato ce lo ha donato intatto. L’ottava notte, quella della distruzione e della violenza, quella della negazione e della paura, purtroppo l’abbiamo inventata noi».

Elisabetta Rizzo


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