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Latina. Articolo 18. Il Comitato Pro-Global: «Votare No è l'unica opzione possibile.
Le chiacchiere, anche degli organizzatori, stanno a zero»
«Attualmente in Italia, per i lavoratori dipendenti delle aziende private con
contratto a tempo indeterminato, sono in vigore due differenti discipline, a
seconda che il lavoratore sia assunto in un’azienda fino a o con più di quindici
dipendenti». Il Comitato Pro-Global torna a spiegare i motivi per cui votare No
al Refendum del prossimo 15 giugno è l'unica opzione possibile. «In ogni caso il
licenziamento individuale deve essere motivato da
“giusta causa” o “giustificato motivo”. Qualora il magistrato stabilisca che non
sussista nessuna di queste due motivazioni, nel caso di licenziamento operato
in azienda con più di quindici dipendenti viene decretato il reintegro del
lavoratore nel posto di lavoro, con condanna del datore di lavoro al pagamento
di tutte le retribuzioni e di tutti i contributi relativi al periodo dal
licenziamento alla sentenza, che spesso giunge dopo numerosi anni. Tale
meccanismo di automaticità ed obbligatorietà del reintegro è riscontrabile solo
in Italia. Il licenziamento senza giusta causa operato da un datore di lavoro
fino a quindici dipendenti viene invece sanzionato dal giudice con la
corresponsione al lavoratore licenziato di un indennizzo monetario, non
essendo in questo caso applicabile l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
L’articolo 18 ha determinato, per le imprese alle quali si applica, secondo le
valutazioni dell’OCSE, una situazione di estrema rigidità del mercato del
lavoro, che è una delle principali cause dell’elevato tasso di disoccupazione
strutturale e di lungo periodo in Italia – in particolare tra i giovani – , di un
ricorso, fin troppo massiccio ormai, ai contratti atipici (con conseguente elevato
turnover), del più basso tasso di attività fra lavoratori della fascia 30-35 anni.
Sul fronte delle imprese più grandi, l’art. 18 funziona come potente deterrente
a nuove assunzioni con “normali” contratti a tempo indeterminato; per le
aziende più piccole, invece, costituisce un disincentivo alla crescita degli
addetti oltre le quindici unità.
I dati mostrano che l’articolo 18 ormai assicura due cose soltanto:
disoccupazione nel peggiore dei casi, e lavoro nero nel migliore, dal momento
che nessun imprenditore accetta più di contrarre con i propri dipendenti un
matrimonio indissolubile sotto forma di contratto a tempo indeterminato.
Secondo le ultime stime, il “sommerso” occupa nel nostro Paese circa dieci
milioni di persone. I promotori del referendum che si andrà a votare il 15
giugno non vogliono soltanto conservare questo sistema, che fa sì che in Italia
l’unico mercato del lavoro funzionante sia quello del lavoro illegale: vogliono
estenderlo, ed estenderlo proprio a quella parte del sistema produttivo – le
imprese fino a 15 dipendenti – che presenta i maggiori tassi di crescita.
Qual è l'effetto pratico del referendum sull'art. 18? Se c'è un bar, un negozio,
una bottega a conduzione familiare che ha bisogno di un lavoratore in più, con
il referendum di Fausto Bertinotti questa assunzione assumerebbe la
connotazione di un matrimonio senza nessuna possibilità di divorzio. Insomma,
viene venduto come un referendum che dà più diritti, in realtà dà meno libertà
e rende ancora più difficili le opportunità di occupazione. Anche perché è
ragionevole prevedere che le imprese saranno costrette a ricorrere sempre di
più alle altre forme contrattuali che non prevedono alcuna garanzia in caso di
licenziamento, come già avviene per le imprese con più di 15 dipendenti.
In realtà la concezione che i promotori del referendum paiono avere dei
“diritti”, è ben strana, e più vicina a quella di “gabbia” o “costrizione” formale:
se un cittadino perde il lavoro, due cose più di tutte vuole che gli siano
garantite. La prima è un mercato del lavoro libero, vivo, competitivo e legale,
che gli possa offrire una nuova occupazione in tempi ragionevoli. La seconda, è
poter contare su un ammortizzatore sociale che gli consenta di sopravvivere
dignitosamente fino al momento in cui avrà trovato un lavoro nuovo. Oggi uno
strumento di questo tipo non esiste se non per i lavoratori della grande
industria: con cassa integrazione, mobilità e prepensionamenti, si sono pagate
le ristrutturazioni della Fiat senza salvare un solo posto di lavoro; si sono
violate le più elementari regole della concorrenza, sia tra le imprese che tra i
lavoratori (inoccupati, precari, disoccupati si sono trovati in una competizione –
persa in partenza – con i cassintegrati a zero ore che svolgevano un altro
lavoro, ovviamente sommerso, potendo già contare sull’assegno erogato dallo
Stato). Per tacer delle finte pensioni di invalidità al sud.
Quindi il referendum non affronta in alcun modo la questione cruciale
dell’assenza di tutele nei confronti del numero sempre maggiore di lavoratori
con contratti diversi da quelli a tempo indeterminato, destinati ad aumentare
se vinceranno i Sì, con danni sicuri per i diritti dei lavoratori, e per la parte più
vitale dell’economia italiana.
La vera garanzia non sta in un reintegro obbligatorio che gli stessi lavoratori,
almeno all’80%, rifiutano per ottenere il risarcimento economico, ma in un
mercato di lavoro che consenta a chi perde il posto di lavoro di ritrovarlo con
una soglia di garanzie.
Come dire, le chiacchiere stanno a zero. Anche quelle dei promotori».
Mauro Cascio
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