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Latina. Il Convegno dell'Ordine degli Ingegneri. Antonio Pennacchi attacca Mazzoni. In anteprima su ParvapoliS una parte del suo intervento su Limes: «Che ha da spartire un semplice impiegato col Futurismo?»

Quando un lavoro è fatto male - "non è a regola d'arte", si suole dire - tu hai tutto il diritto di non pagarlo. Mica ci vuole per forza RaiTre. La prima volta - tanti anni fa - che andai a studio di un architetto (andare a studio vuol dire andare a lavorare nello studio di un architetto, ed è una locuzione che viene direttamente dal '500, quando - ragazzino - in bottega ti ci mandavano proprio a studio) ci trovai una causa in corso. Un cliente non lo voleva pagare. Anzi, voleva pure i danni, e il tribunale di primo grado gli aveva dato ragione. L'architetto stava con le mani nei capelli. Gli aveva progettato un albergo sulla marina, e quello era stato contento: "Ammazza che bello qua", faceva davanti ai disegni, "ammazza che belo là". E poi gli aveva diretto i lavori e finito tutto l'albergo, e quello era ancora contento: non c'era una camera sola che non avesse la sua bella finestra sul mare. Ma poi è andato alla Cassa del Mezzogiorno per riscuotere il contributo che gli avevano promesso. Quelli hanno detto di no, hanno fatto il sopralluogo ed hanno riscontrato che le scale erano fatte male, almeno secondo loro: "Troppo alte, troppo ripide, il cliente si stanca" (poi dice la Cassa del Mezzogiorno). Quello un altro po' s'ammala, e per riuscire ad avere i soldi ha dovuto ributtare giù dei muri ed installare un ascensore - erano due piani in tutto, oltre il piano terra: quattro rampe di scale - affinché i clienti non facessero soverchia fatica. Però dopo s'è rivalso sull'architetto: "Io t'ho chiamato apposta, sennò me lo progettavo io". Gli voleva pure menare. E quando sono venuto via, la causa era ancora in corso. Ma quell'altro non ha più visto una lira.
A Latina hanno testé organizzato un convegno ed una mostra per celebrare Angiolo Mazzoni, architetto futurista. Anzi, ingegnere (mostra e convegno sono stati difatti messi in piedi apposta dal locale Ordine degli ingegneri, che ne rivendica l'agnizione contro la dominante vulgata che lo vorrebbe invece architetto: "Era ingegnere - e che madonna! - pur sempre futurista"). (In realtà tra le due cose, allora, non c'era tanta differenza.) Questo Angiolo Mazzoni del Grande (1894-1979) opera soprattutto a cavallo degli anni Trenta. Va prima a studio da Piacentini e poi passa alle dipendenze del Ministero dei Trasporti. Progetta un gran numero di stazioni ferroviarie (Siena, Trento, Reggio Emilia, Reggio Calabria, Montecatini Terme e naturalmente Littoria) ed uffici postali (Littoria, Sabaudia, Varese, Bergamo, Pistoia, Trento, Palermo, Ostia). Mazzoni progetta anche stazione Termini a Roma: sue sono tutte le fiancate, quelle con gli archi. La facciata no, quella - con la pensilina - la riprogetta Quaroni nel dopoguerra, la sua era un colonnato di stampo neoclassico-speeriano, piuttosto brutto. Ma suoi sono quei torracchioni cilindrici - i serbatoi dell'acqua - che si vedono arrivando con il treno, quelli con la scala ad elica che gli si srotola attorno, che non sembra salirci, ma scenderci, come se fossa stata posta dall'alto, dalla cima, e gli si fosse adagiata calando. [...]
A dire il vero un altro convegno e un'altra mostra - di ben altre dimensioni e rilevanza nazionale - c'erano già stati a Firenze un anno o due addietro. Questo processo di beatificazione di Mazzoni era peraltro cominciato già prima, ed era naturalmente cominciato a sinistra - sempre noi, manco fossimo interisti - anzi, lo cominciarono proprio i fratelli Veronesi (non mi ricordo se prima Sandro, lo scrittore, o Giovanni, il regista) con un documentario televisivo sulla centrale termica e la cabina di controllo progettate per la stazione di Firenze: "È la fine del mondo". Non nego che sia bella. A vedersi da lontano. Pare sia il suo capolavoro (alcuni dicono le poste di Sabaudia). Ma dopo questo sdoganamento a sinistra - e un po' di colpa ce l'ha pure Giorgio Muratore - adesso a destra si sono aperte le cateratte: è un'inondazione, non se ne può più, ogni trombone che s'alza dice: "Mazzoni!", e poi subito: "Il futurismo!".
Ma quale futurismo. Quello non sapeva nemmeno dove stava di casa. E certe volte mi sa che non lo sanno neppure tutti quelli che ne scrivono, anzi, soprattutto quelli, l'onagrocritica (che deriva non già da Onan - come pure ci afferisce parecchio - il peccato di Onan, bensì da onagro, l'asino primigenio, l'asino selvatico). Che cià da spartire Mazzoni con il futurismo? Le corna loro. C'è però un amico mio di Latina - amico per modo di dire, è amico quando gli pare a lui, è pure laziale - che si straccia le vesti: "L'ha detto Marinetti che Mazzoni era futurista. Mo' di futurismo capisci più tu che Marinetti?". Marinetti era un altro trombone. Gli dà la patente nel 1932: "Futurista". Quello prima non ne aveva mai sentito parlare. Tutte le cose che fa sono di mattoni. Le murature in pietrame misto con ricorsi di mattoni, murature alla romana, come si dice in gergo, murature autoportanti. Usa il cemento armato solo quando non ne può fare a meno, e solo per strutture orizzontali, sottoposte a sforzi di trazione. In quelle verticali - a pressione - se lo scorda proprio. Dove sta il nuovo? Più tradizione di quello. Dove sta il futuro? E poi tutti i paramenti in mattoni, a cortina. Dice: "Ma le pensiline di Littoria?" (quelle della stazione, con il calcestruzzo a faccia vista). E che vuoi che siano, quei pochi metri quadri, in confronto alle sterminate superfici di mattoni? E i tetti? Quello non fa un terrazzo. Solo tetti a capriata, con le tegole di coccio come si facevano duemila anni fa. E tu mi vieni a parlare di futurismo? A Calambrone fa due propilei d'accesso a pianta circolare, con le colonne di marmo intorno. Hai capito? Il futurismo diceva che bisognava spaccare la Nike di Samotracia, la Venere di Milo, buttare a mare tutta l'antichità, tutta la cultura classica, e quello a Calambrone rifà pari pari il tempio di Ercole al Velabro, II sec. a.C. Lui lo rifà a Calambrone. Tale e quale. Il futurista.
Dice: "Vabbe', e Marinetti?". E che ti posso fare: Marinetti era un coglione. Almeno nel '32. Nel 1909 era stato un altro paio di maniche. Dice: "Tu non puoi fare ste distinzioni". E chi te l'ha detto? Io faccio tutte le distinzioni che mi pare. Mica mi puoi venire a dire che quel povero ciccione che va da Biscardi il venerdì sera è lo stesso Diego Armando Maradona che ti nascondeva la palla. Sono due cose diverse. Sennò giocherebbe ancora. Quello è passato, questo è un'altra cosa. Come Cicchitto, fai conto, che dice d'essere ancora socialista. E così Marinetti. Nel 1909 - con la pubblicazione del Manifesto a Parigi sul Figaro - aveva inventato il futurismo, e con quello aveva rivoluzionato l'arte mondiale, è un dato di fatto. Ma la potenza esplosiva - la deflagrazione - stava proprio tutta nel furore iconoclastico, nella "contestazione globale del passato". Il suo ruolo d'avanguardia, di rottura e di apertura di nuovi lidi si gioca tutto fino al 1914, poi è la Guerra, e arrivederci e grazie. Tutta quella generazione di intellettuali che dal '9 al '14 - appresso a Marinetti - non fa che parlare di guerra (sia intellettuale che guerra guerreggiata), poi alla guerra ci va per davvero. Un conto è il sangue dalle vene e un conto il rosso sulle tele. Tornano un po' diversi. E comunque è un altro mondo, hanno degli anni in più, arrivano altri giovani, altre idee. È finita. L'energia propulsiva della schola futuristica s'è bella che esaurita. Come è giusto che sia: mica puoi essere avanguardia a vita, puoi essere al massimo avanguardia per una fase, poi è destino che arrivi qualcuno a sopravanzarti con nuove idee ed energie: "Fammi largo che sei superato". Dice: "Ma guarda che ti sbagli: dopo il primo futurismo ce n'è un secondo, sta scritto sopra i manuali, e ce n'è pure un terzo". Me cojoni. Io - sia chiaro - non sono uno storico dell'arte, e nemmeno lo voglio fare, non ci capisco niente, soprattutto di quella contemporanea, che Dio ne scampi e liberi. Non so nemmeno bene che differenza ci sia tra impressionismo ed espressionismo. Certe volte mi confondo. Ma una bufala la so riconoscere.[...]
Nel futurismo c'era stato tutto: artisti e saltimbanchi vari, ma d'arte vera aveva prodotto poco. La sua importanza è da ascriversi alla storia della cultura, a quella del costume. È in questo ambito che il futurismo gioca oggettivamente un ruolo rivoluzionario, in quello della Kulturgeschichte che - Croce insegna - è cosa un diversa dalla Kunstgeschichte, la storia dell'arte. Comunque, bene o male, nelle arti pittoriche qualcosa di notevole lo avevano pure prodotto. In poesia e letteratura non un granché: sì, parecchie pagine, pure troppe, ma niente - ad eccezione di Majakovskij - da consegnare alla Storia. Comunque in letteratura ed arti figurative avevano prodotto. In architettura niente. Quella gli mancava. [...] Tutti razionalisti. Futurista nessuno. Gli era rimasta la casella vuota. Pittura: a posto. Scrittura: a posto. Architettura: niente. Erano sedici anni che si portava avanti sto cruccio. Intanto il mondo era cambiato, il futurismo - in realtà - bello che superato, ma lui come se niente fosse, più vivo che pria, col cruccio però di quella casella da riempire. Naturalmente era cambiato pure lui. Adesso - il 18 dicembre 1932, all'inaugurazione di Littoria - mica era più il Marinetti di Parigi del 1909. Adesso era un vecchietto con la panza, che sculettava in camica nera, con la giacca d'orbace, Accademico d'Italia, col cappello con l'aquila, col cinturone, a amministrare il suo gruppo di potere. Una biscardata appunto, che vede st'edificio delle poste, ste zanzariere, sti fascioni, e dice: "T'ho trovato! Sei futurista!", credendosi ancora di stare in mezzo al San Paolo. Un assist per Careca. E quello: "Futurista? Di più! Dìmme dove devo firma'!". Capirai, era impiegato, nessuno lo conosceva, tutti gli altri erano architetti di grido, arriva questo e gli dice: "Ti faccio famoso, da domani stai pure a Parigi", gli rispondeva di no? "Sì Maestro, lascio tutto e vengo con te". Ed è così che nasce il terzo futurismo, come lo chiamano loro: nel 1932, sotto lo sponsor dell'Accademia d'Italia, il fascismo-regime, manco il fascismo-movimento. Il futurismo iconoclasta, che era contro tutte le accademie. Dice: "Vabbe', ma questi lo sapevano che si stavano pigliando per il culo?". Non lo so. Di sicuro hanno pigliato per il culo gli altri. Tanto il mondo è pieno di gonzi. E l'anno dopo, nel 1933, Marinetti gli fa proprio pubblicare un Manifesto futurista dell'architettura aerea, e poi gli fa dirigere una rivista, Artecrazia. È stato la fortuna sua. Anche se continuava a costruire in muratura mista, cortina di mattoni e tetti con le tegole, e poi a Termini col travertino e gli archi (non parliamo della facciata). Però era futurista.
Questo palazzo delle poste di Littoria ha poi avuto una vita strana. Subito due anni dopo gli hanno detto di ampliarlo. Il Duce aveva deciso che Littoria doveva diventare capoluogo di provincia, e quindi l'ufficio postale doveva essere più grosso. Lui si mette e lo fa. E viene pure bello. Ma il Duce fa levare tutte le zanzariere, non le vuole più: "La malaria l'abbiamo sconfitta: che ci stanno a fare? Che segnali mandiamo? Che pensano i visitatori? Via quella roba". E restano solo i mattoni e le tegole. Gli elementi futuristici li levano dopo solo un paio d'anni. Nel '35 non ci stanno più. Almeno secondo tutta la letteratura. Io invece me li ricordo ancora per tutti gli anni Settanta. "Non è possibile", dice quel mio amico di Latina, "nelle foto d'epoca già non ci sono più, li ha fatti levare il Duce". Per loro fanno testo le foto d'epoca, non la memoria viva. Io invece mi ricordo proprio quando ero hippy, nei primi anni Settanta, che mi stendevo a fumare sopra quei davanzaloni, sdraiato al sole, e poi buttavamo le cicche dentro le grate. Vedi un po' se c'erano ancora. Dice: "E il comandamento del Duce?". Quello venne eseguito, ci mancherebbe altro. Ma poi ci fu la guerra, lo sbarco di Anzio, e i tedeschi fecero saltare le idrovore e riallagare la palude. Nel primo dopoguerra ci fu quindi una durissima recrudescenza malarica. Io ancora mi ricordo mio padre l'ultima volta che ebbe un attacco di malaria - sarà stato il '54 o '55 - che saltava e delirava sopra il letto grondante di sudore, mentre mia madre e il dottor Fabiano gli davano il chinino. Debbono averle rimesse lì, nel dopoguerra, e debbono averle tolte solo ultimamente.
Dice: "Vabbe', ma se non era futurista, allora sto Mazzoni che era?". E me lo chiedi a me? Che vuoi che ne sappia io: costruttivista, espressivista, novecentista, tutto quello che ti pare. Tutto ma non futurista; almeno questo lo abbiamo assodato. La questione centrale però non sta qua. Che vuoi che ci interessi che madonna era? La questione centrale purtroppo è che questo non era nemmeno un granché come architetto, né tampoco come ingegnere. Questo faceva le scale peggio dell'architetto mio, quello dove sono andato a studio la prima volta. Certe scale che ti ci vuole la fune, l'ascensore, il K2. Manco una capra. Quando arrivi sopra hai le fibrillazioni. Ti ci serve il polmone d'acciaio. Dice: "E questo che c'entra? L'importante è che sono belle". Ma tu sei scemo: a che ti serve che una scala è bella se sopra non ci puoi salire? Che me l'hai fatta a fare? Me la guardo da sotto? E poi per salire chiamo lo sherpa? Dice: "Ma tu come lo fai a dire? Magari è un'impressione tua, un'impressione soggettiva: magari ci sale un altro e non gli viene per niente l'affanno". Sì, Messner. Compa', le scale non sono un fatto opinabile, qui non stiamo a parlare del gusto, o della metafisica. Le scale sono un fatto tecnico, ergonomico, ergometrico. Quella delle costruzioni è una scienza, mica uno filosofia. Ci stanno i manuali, ma i manuali tecnici, quelli con le formule e le cifre, i manuali Hoepli per intenderci, mica quelli di speculazione onagrocritica. Le tavole logaritmiche. Mica ti puoi inventare ogni volta il modo d'arrampicarti. [...]

Antonio Pennacchi


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