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Roma. Alle Origini delle Religioni. Grazia Marchianò: «Il sincretismo è un punto di vista difficile da accettare per una mentalità schiava della fede»

Davanti le Telecamere di ParvapoliS Grazia Marchianò, docente presso l'Università di Siena, orientalista a livelli internazionali e curatrice dell'opera di Elémire Zolla. Italiana e asiatica per vocazione, ha alle spalle studi e ricerche di filosofia indiana e estetica comparata, campi nei quali ha pubblicato un centinaio di lavori in italiano e inglese. Non è neutra, la parola sincretismo. Ha una risonanza sgradevole, evoca diffidenza, persino disprezzo. Presso una parola così sensibile è utile soffermarsi. Erasmo la estrasse da Plutarco, per il quale aveva tutt'altra accezione, ma essa entrò nell'uso generale soltanto col Barocco tedesco, e fu fin dall'inizio una contumelia. Nel 1615 un polemista luterano, cane da guardia dell'ortodossia, tacciò di "sincretista" un teologo della sua Chiesa, Giorgio Callisto. Fino alla morte, che lo colse nel 1656, il Callisto dovette tediosamente lottare per scrollarsi di dosso l'epiteto. La sua vita era stata ricca di più esperienza di quanta in genere toccasse ai suoi confratelli pastori; aveva percorso la Francia e l'Inghilterra, aveva studiato e compreso le varie dottrine e atmosfere dottrinali del tempo, al punto che quando scriveva, le sue frasi potevano sembrare a volte cattoliche o, all'opposto, calviniste. In un'epoca in cui la setta dei nicodemiti esortava a dissimulare per principio le proprie idee, molti sospettavano che Callisto in cuor suo osasse librarsi, al di sopra delle divisioni ecclesiastiche, in una sfera mentale dalla quale le diverse dottrine, per ciò che in esse davvero contava, apparivano come tanti affluenti di un unico fiume, dove tutte erano destinate a confondersi. Se Callisto, all'apparenza luterano, lasciava trapelare dai suoi scritti il cattolico o il seguace di Calvino, non poteva che essere in realtà un sincretista, traditore e "maestro di confusioni". Per tutto il seicento durò la controversia callistina o antisincretica, intrecciandosi alla diatriba antinicodemica. Il bersaglio di questa, Sebastian Frank, insegnava che chiunque avesse un'esperienza intima della Chiesa spirituale e invisibile, non poteva che dissimularla, essendo essa incompatibile con il mondo esteriore e con il suo linguaggio. Un seguace italiano, Achille Bocchi, loderà pertanto i libri di emblemi, come più consoni dei comuni libri di parole alla discrezione nicodemita. La parola "sincretista" fu applicata alla filosofia conciliativa dei grandi Imperi dell'antichità, di Ciro, degli Antonini, sotto i quali ciò che non figurasse nel pantheon imperiale era trascurabile, provinciale. Come contro quella sintesi imperiale aveva combattuto il Cristianesimo emergente, così le chiese protestanti ricombatterono contro la sua ricomparsa, a furia di sinodi e di definizioni ferree murandosi nella loro inflessibile identità. Nato fra le squallide beghe di preti riformati, il nostro vocabolo serba della sua origine il triste marchio e la carica condannatoria. Il riflesso condizionato della deprecazione continua a scattare dopo tre secoli, segno che non "sincretista" era stata coniata un'ingiuria di cui si sentiva bisogno
A margine del suo intervento nel corso del convegno nazionale dal tema «L'obbligo di sapere, la vanità di comprendere: Zolla e l'esoterismo. Alle origini delle religioni» organizzato dal Supremo Consiglio del Rito Scozzese Antico ed Accettato per la Giurisdizione Massonica Italiana di Palazzo Giustiniani, le si è soffermata molto sul termine "sincretismo". Quello di Elémire Zolla fu in definitiva uno studio "sincretico" delle filosofie e delle religioni... «È un punto di vista difficile da accettare per una mentalità che ha visto nella differenza specifica di fedi e sistemi filosofici il punto di fondo di tutta la spiritualità occidentale. Zolla con grande chiarezza ha sottolineato il fatto che fino a quando noi non ci metteremo su un punto più alto, distanziato delle religioni non potremo renderci conto che si tratta di diverse angolazioni dell'unica ricerca della Verità, della luce. È un unico principio che assume tanti aspetti, tante maschere. Allora è chiaro che un "credente" non accetta l'idea che altri "credenti" possano possedere verità altrettanto identiche. Ma la fede in una religione resta per Zolla un momento transuente, ed in sé imperfetto, quale che sia il provvisorio guscio in cui la nascita ci abbia messo». Zolla e la Massoneria. Lui non fu mai iscritto. Quali sono i punti di contatto e quali le divergenze? «Zolla non fu mai iscritto alla Massoneria così come non appartenne mai a nessun gruppo o associazione di nessun tipo. Si rifiutò sempre di firmare qualsiasi manifesto, per quanto nobili, prestigiose e pienamente condivisibili fossero le intenzioni. Zolla fu un profondo conoscitore della Massoneria, della sua Tradizione, dei suoi Miti e dei suoi Riti. Assoluto competente del suo aspetto esoterico e del suo aspetto exoterico. Possedeva anche numerosi libri e documenti di una certa rarità. Come punto di contatto, al di là del comune patrimonio tradizionale, è sicuramente la "ricerca", il principio della "conoscenza esoterica" che è base della fraternità massonica». Va anche aggiunto, in riferimento al "sincretismo" che proprio per la sua natura, la sua "ontologia" sincretica, "relativistica" di contro ad una concezione assolutistica della Verità che la Massoneria si prese la sua prima scomunica dalla chiesa cattolica. Scomunica che, per la cronaca, non è mai stata revocata. Tornando a Zolla. Qual è il segno che rimane del suo pensiero nel terzo millennio? «Si tratta di un processo, di un cammino. La chiamerei più che altro "traccia". Una traccia destinata ad incidere tanto di più nella coscienza dei contemporanei quanto più essi si apriranno al significato della sua opera. Ma Zolla, va ricordato, era un uomo senza illusioni. E senza speranze».

Andrea Apruzzese

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