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Latina. Fecondazione assistita e libertà individuali. Se il fare figli sia un affare privato, un diritto o un destino. Moderate considerazioni
«La tolleranza - ha scritto il filosofo Michael Walzer - rende possibile la
differenza; la differenza rende necessaria la tolleranza». Se su un tema
delicato e complesso, come quello della procreazione assistita, è legittimo
- e forse necessario - che si diano opinioni diverse, di quale tolleranza dà
prova il nostro paese con la legge recentemente approvata, una
delle più illiberali dell’Italia repubblicana?
Luisella Battaglia,
componente del comitato nazionale per la bioetica, è una studiosa,
molto conosciuta in ambienti laici e liberali per essere
stata relatrice a diversi convegni.
Ha recentemente scritto: «A leggerne i punti principali - dall’accesso alla procreazione
assistita consentito solo nei casi di sterilità documentata e non risolvibile
terapeuticamente (e non aperto anche alle coppie portatrici di malattie
genetiche trasmissibili al concepito) al divieto assoluto di fecondazione eterologa
(cioè con seme di persona estranea alla coppia) -, si ha l’impressione di
vivere in uno Stato paterno, una via di mezzo tra il precettore e la guida, che
tratta i cittadini come minorenni, bisognosi di protezione e di tutela, incapaci
di decidere autonomamente. Uno Stato che penetra più profondamente di un
tempo negli affari privati, regola a suo modo un numero sempre più grande di
azioni sempre più piccole e si insedia ogni giorno di più a fianco di ogni cittadino
per assisterlo, consigliarlo e costringerlo. Resta la domanda: chi ha paura
della procreazione assistita? Perché tante riserve nei confronti di tecniche che
consentono di prestare aiuto a chi incontra difficoltà procreative? Perché escludere
a priori la possibilità di sperimentare vie diverse da quelle tradizionali?
Siamo in presenza di situazioni del tutto inedite a cui non riusciamo a trovare
soluzioni adeguate, richiamandoci a principi e valori che ci guidavano nel passato,
quando la nascita era un destino o una necessità.
Alle origini del rifiuto della procreazione assistita vi è fondamentalmente la
paura dell’artificialità: come potrà crescere un io che si sa prodotto
artificiale di altri esseri umani? Sembra all’opera un immaginario trasgressivo,
una sorta di “narcisismo genitoriale” e biotecnologico: il figlio
sarebbe un qualsiasi prodotto ingegneristico, l’essere umano potrebbe
diventare una sorta di macchina vivente.
Ma siamo davvero sicuri che la naturalità della procreazione sia di per sé garanzia
di consapevolezza, serietà ed eticità? Quante procreazioni sono avvenute
nella inconsapevolezza e nella casualità più completa? Quanti bimbi, “nati naturalmente”,
sono meri oggetti, strumenti, trattati come non persone? A ben riflettere,
la responsabilità o l’irresponsabilità non ineriscono di per sé all’una o all'altra
forma di procreazione giacché ci si può riprodurre naturalmente in modo
irresponsabile e artificialmente in modo responsabile. Il rischio della reificazione
dell’umano non risiede nelle metodologie impiegate, in particolare non inerisce
necessariamente - come taluni pretendono -
alle nuove tecnologie riproduttive ma è in agguato
sempre e dovunque esista una volontà prevaricatrice,
si avvalga essa di mezzi naturali o artificiali. Che
il figlio sia un prodotto, un oggetto o un soggetto,
non dipende, ancora una volta, dalle tecniche attraverso
cui si realizza la genitorialità ma dall’accoglienza,
dall’amore, dal rispetto con cui è ricevuto.
Se intendiamo la genitorialità non come fatto
meramente biologico ma culturale e quindi propriamente umano, frutto di una
consapevole decisione e di un progetto di vita, non possiamo attribuire all’artificiale
un potere di pervertire, snaturare, guastare tale progetto. D’altra parte,
se intendiamo per artificiale ciò che è socialmente costruito, dobbiamo riconoscere
che la genitorialità raggiunta attraverso l’adozione è altrettanto artificiale
di quella perseguita attraverso tecnologie riproduttive quali la fecondazione
eterologa. In entrambi i casi, la dimensione simbolica è assai potente.
Anche nell’adozione, infatti, manca il legame genetico tra genitori e figli, non
vi è vincolo di sangue ma sono fortemente evidenziati e valorizzati i legami
a ffettivi e quindi le decisioni volontarie e libere tra i diversi soggetti. Perché
dovremmo ritenere che la fecondazione eterologa - una volta approntato un
quadro sicuro di garanzie e di tutele per il nascituro (in primis, l’impossibilità
di disconoscimento), come avviene nell’adozione - sia illecita eticamente
e, come vorrebbe il legislatore, giuridicamente? Paradossalmente, il disegno
di legge, col suo sancire il primato del vincolo di sangue, contraddice quel
ridimensionamento del dato biologico come fondamento delle relazioni familiari
che era stato uno dei cardini della riforma del diritto di famiglia.
Ancora una volta, non siamo dinanzi a uno scontro tra cattolici e laici ma
a una questione di tolleranza, nell’accezione più classica del termine. La
legge viola infatti quella distinzione tra sfera pubblica (politica) e sfera
privata (morale) che, dal Seicento in poi, costituisce un patrimonio ideale
irrinunciabile del mondo moderno.
È così difficile nel nostro paese riconoscere che ogni persona ha una propria
scala di valori che dobbiamo rispettare anche se non li approviamo? Credere
nella libertà significa che non ci consideriamo i supremi giudici dei valori di
un altro, che non ci sentiamo autorizzati a impedirgli di perseguire scopi che
disapproviamo, finché, naturalmente, non infranga il campo, egualmente
protetto, dei diritti e dei valori altrui».
Mauro Cascio
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