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Latina. Iraq. Un lettore: «C'è ancora chi professa, e spesso lo fa ad oltranza, l'offesa stragista e l'antidemocrazia come sistema globale»

Gentile Cascio, Mi permetto di intervenire, non lo faccio mai praticamente anche per mancanza di tempo pur seguendo ciò che sul vostro sito si dice. Innanzitutto però i miei complimenti per il lavoro della vostra testata. Vorrei contribuire a ricordare a me stesso prima alcuni principi del federalismo che sono una base dai quali non si può prescindere quando parliamo di pace mondiale. Bene si fa quando, ed è per questo che, magari in questa sede si può aprire un dibattito, si articola due punti di elevato spessore politico-spirituale: il pacifismo kantiano e le tesi federalisti dei "padri" in merito all'antitesi del nazionalismo (tutti contro tutti) e il concetto di pace. Ricordo quindi alcuni pensieri di un maestro torinese di recente scomparso che qualche tempo fa scrisse una premessa ad una edizione del Manifesto di Ventotene (quello di Spinelli e Rossi), Norberto Bobbio.
Il professore sottolineò come tra "il federalismo nato dalla tragedia della seconda guerra mondiale e il federalismo del XIX secolo c'è la stessa differenza che corre tra una concezione evoluzionistica, e in fin dei conti ottimistica, della storia e una concezione attiva ed energicamente prammatica". Per distinguere questi due modi di affrontare il problema della guerra e della pace Bobbio ha parlato più volte di "pacifismo passivo ed attivo". "Pacifismo passivo, il primo, perché attende la soluzione del problema da una evoluzione naturale, quasi fatale, della società umana, e considera la fine della guerra come il risultato inevitabile di una tendenza verso forme superiori di convivenza, si tratti del passaggio dalle società militari alle società industriali, proprio della visione positivistica della storia, o del graduale affievolimento dello spirito di conquista ad opera dello spirito del commercio, che fu uno dei punti fermi della dottrina liberal-liberistica, o della scomparsa di ogni forma di guerra in una società internazionale in cui tutti gli stati fossero fondati sulla sovranità popolare, che fu uno dei dogmi più asseverati e creduti del nazionalismo democratico. Pacifismo attivo, il secondo, perché, venuta ormai meno la credenza nel progresso inevitabile, sopraffatto l'evoluzionismo da una visione catastrofica o dialettica della storia, nessuna meta è preventivamente assicurata, nessun esito è predeterminato in anticipo; ogni passo innanzi è il prodotto di una azione cosciente e deliberata. L'Europa - per dirla con il motto di uno dei fondatori - «non cade dal cielo». Credo che se si vuol tracciare una prima linea di demarcazione tra il federalismo di oggi e quello di ieri convenga risalire a queste diverse, anzi opposte, concezioni generali della storia che l'uno o l'altro, anche senza averne sempre chiara coscienza, presuppongono, per il solo fatto di essere iscritti in un conte­sto storico e ideologico profondamente mutato".
Per dirla con Bobbio la guerra è diventata, o forse meglio è ridiventata, totale. La guerra non solo non è evolutivamente scomparsa ma è diventata insieme più micidiale e più iniqua, è vero.
Quello che noi viviamo oggi non è un momento in cui assumere assetti ideologici prammatici. La lotta al terrorismo è guerra totale, la guerra in Iraq è guerra civile. È sempre bene distinguere questi due aspetti che spesso si intrecciano a ragione. Con il tema della guerra totale comincia l'opuscolo di Storeno (Ernesto Rossi), "Gli Stati Uniti d'Europa", apparso a Lugano nel 1944, uno degli incunaboli del Movimento. «La guerra non è più un urto tra eserciti - vi si legge -. È un urto fra popoli che nella lotta impegnano tutti i loro beni, tutte le loro vite. È la guerra totale ecc...».
La guerra affossa le speranze di pace, quella perpetua scopo del foedus kantiano, quindi va respinta come volta ad accedere a risoluzioni con strumenti atti ad offendere al di fuori di un ordine mondiale capace di imporre la propria forza politica innanzitutto. Gli USA hanno agito e agiscono contornati dai loro alleati in modo del tutto autonomo entrando nel merito della democrazia di un Paese, che, per quanto influente sull'intero mondo, compresi i terroristi (leggi Osama Bin Laden), vuole autodeterminarsi anche attraverso forme di politica non propriamente democratica? Un problema di convivenza con gli altri popoli si pone? Bene solo l'ONU e nel suo ambito esclusivo si può decidere il da farsi. Questo chiediamo, la forza usata per uccidere uomini e donne e sopprimere la vita di un Paese in modo indiscriminato crea oppressione e presto detto la rappresaglia diviene l' ordine del giorno. Aspettiamoci una guerra civile con tanto di resistenza, come d'altra parte sta già avvenendo con il rischio di contare altri morti sia da l'una che dall'altra parte.
Concludo con una riflessione di Giampaolo Pansa sull'ultimo numero dell'Espresso, il quale scrive "proviamo a immaginare uno scenario improbabile, ma possibile. Travolti dal disastro dell'Iraq, americani e inglesi decidono di ritirarsi, di andarsene da quell'infelice paese. L'Onu sancisce il ritiro con una nuova mozione che, cito le parole di Massimo D'Alema a "Ballarò" del 6 aprile, «mette fine al potere militare dell'occupante». Arrivano in Iraq i contingenti inviati dalle Nazioni Unite, tratti dagli Stati più diversi. La situazione si calma. La guerra civile fra le fazioni religiose si spegne. L'Onu prepara le elezioni di un Parlamento iracheno, che poi esprimerà un governo sempre tutto di iracheni. A quel punto, che cosa decidono i terroristi islamici di Al Qaeda? Smettono di fare attentati in Occidente? Forse sì, forse no. Vorrei sbagliarmi, ma io propendo per il no". Su "Repubblica", con poche parole, lo scrittore inglese Frederick Forsyth si domanda: che cosa abbiamo fatto per meritarci il terrore degli islamici? Nulla. Non c'entra quello che abbiamo fatto - scrive Pansa -, ma che cosa siamo. Gli islamici radicali, guidati da dieci, cento, mille Bin Laden, - continua Pansa - "hanno dichiarato guerra alle democrazie occidentali. Noi possiamo anche non sentirci in guerra. E protestare perché un nostro governo, per esempio quello di Silvio Berlusconi, ci ha portato dentro un conflitto rovente. E votare in modo tale che un altro governo, per esempio quello di Romano Prodi, ci conduca fuori. Non per questo gli stragisti saranno clementi con noi. Siamo il nemico da sconfiggere. E ci attaccheranno sempre. Al posto di sempre, provo a scrivere parole diverse: ci attaccheranno fino a quando loro avranno vinto o avremo vinto noi, perché saremo riusciti a renderli inoffensivi". Le parole di pace sembrano così inoffensive con la "minaccia" di un isolamento mondiale di chi professa l'offesa stragista e l'antidemocrazia globale?

Mauro Cascio


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