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Latina. Primo maggio, un disastro. «Il proletariato in marcia verso il sol dell'avvenire non dice più niente». Domani lo speciale su San Giovanni

Il primo maggio è stato ed è il tradizionale giorno, nel calendario cattolico, della festa confessionale di san Giuseppe lavoratore, festa delle masse rurali, importantissima nelle tradizioni folkloriche italiane, che conserva nel suo retaggio patrimoni ben più antichi. È stato poi anche il giorno della festa del lavoro, legata alle masse laiche e laicizzate, per quanto abbondantemente usato e abusato, nella logica di un’accentuazione dello scontro tra "proletariato" in marcia verso "il sol dell’avvenire" e "padronato". Esso ha quindi scandito, come strumento di altissima precisione, gli umori, le passioni, le lotte sociali e politiche del novecento. Ad esso sono legati, in particolare, ideali e tragedie di piccole comunità anarchiche e di discriminazioni poliziesche contro coloro dai quali le società liberali e borghesi si aspettavano - e non a torto - gli attacchi più pericolosi. È stato anche la festa dei lavoratori delle masse operaie e agrarie dei Paesi a regime comunista sotto il tallone sovietico e degli stessi popoli sovietici, Paesi in cui si festeggiava, normalmente, con sfilate militari.
In particolare, il primo maggio appena festeggiato in casa nostra, mai aveva avuto toni così sommessi (domani su ParvapoliS un dietro le quinte della manifestazione musicale a San Giovanni, trasmessa, giustamente in differita dalla Rai dopo le vergognose strumentalizzazioni dello scorso anno da parte di alcuni "artisti"). Un vero e ben atteso record. Forse è un più che positivo indizio della fine delle croniche intossicazioni a cui era stata sottoposta questa importante ricorrenza dei lavoratori, dai colori in origine comprensibilmente tutti rossi e ben carica di aspettative messianiche.
Il pendolo della storia ha dimostrato di riservarci, più volte, sorprese inaspettate circa una più attenta e spassionata valutazione di fenomeni, ritenuti esclusivi e irripetibili. È questo il caso della festa dei lavoratori, poiché la solidarietà, la fratellanza e lo spirito di lotta, espresso dai "proletari" contro lo spirito capitalista si è rivelato, infine, eccessivo, in riferimento alle linee di lotta più radicale. Perché, andando proprio a guardare i benefici che la libera iniziativa ha prodotto con i grandi investimenti nella ricerca applicata e tecnologica - per quanto, ovviamente, non certo per la benevolenza, la disponibilità e l’altruismo dei ceti agiati - ci accorgiamo come essi (nonostante le crisi, le stagnazioni, i temporanei decrimenti, le speculazioni e quanto altro le logiche economiche e non di meno politiche hanno imposto nel corso dei tanti lunghi decenni) hanno determinato in occidente un oggettivo, enorme accrescimento dei livelli della qualità della vita, in termini igienico-sanitari, culturali, di libertà individuali, di "qualità materiale e quantitativa", complessiva o "voluttuaria", ovvero di "wellfare" ben diffuso. Su questo, la storia delle popolazioni dell’Europa orientale è stata molto diversa: è stata una copia sfocata e a rallentatore, rispetto a quanto accadeva oltrecortina. Inoltre, come una più matura coscienza ecologica suggerisce ormai a tutti, questa enorme diffusione del benessere materiale delle società industriali e "post" -industriali non è stata e non è esente da squilibri anche gravi prodotti in tutte le forme in terra, nell’acqua, nell’aria. Se non abbiamo dimenticato il grave guasto al reattore nucleare di Cernobyl, quasi nessuno ancora sa della catastrofe ambientale in atto da decenni nella regione del grande Lago d’Aral, le cui acque si sono ritirate di oltre 100 Km., e dove la popolazione rivierasca è affetta da malattie con esiti mortali in percentuali molto elevate.
Dal 1989, anno della caduta del muro di Berlino, lo svolgimento degli avvenimenti planetari e a maggior ragione europei è radicalmente cambiato ed ha subito accelerazioni enormi. Di massimo rilievo è il caso della "cronaca" della Comunità Economica Europea, trasformatasi in Unione Europea, alla quale aderivano Spagna e Portogallo, diventando così l’Unione dei 15 Paesi.
Oggi, con una coincidenza accidentale e significativa (proprio secondo l’analisi simbolica di C.G. Jung), abbiamo iniziato il primo passo della nuova storia dell’Unione Europea dei "25", della nuova Europa, che si è allargata lungo tutta la prima fascia orientale da Nord a Sud, includendovi pressocchè tutti gli Stati ex comunisti. In un futuro non lontano speriamo di potere accogliere il resto degli Stati balcanico-danubiani. Dopo, potrà essere la volta di un confronto più concreto e di decisioni definitive con la Turchia, quanto con le grandi Nazioni dell’Europa orientale, Russia e Ucraina. A voler spingere lo sguardo verso delle realtà che oggi sembrano men che virtuali, dopo un processo ricco di sedimentazioni, di amalgami e di coesioni indispensabili, di libertà politiche economiche e religiose, l’Europa continentale non potrà non tornare a guardare alla sponda settentrionale africana, le cui terre, per millenni, hanno avuto a doppio filo la storia legata con quelli delle altre sponde del Mediterraneo. In questo non vi è nulla di avveniristico, quanto di insita necessità degli avvenimenti. È anche, e non per ultimo, per questo che sin da oggi le singole diplomazie europee e, speriamo quanto prima, la diplomazia europea a una sola voce, possano e possa realizzare condizioni di sempre maggiore avvicinamento economico, culturale e sociale fra questi popoli rivieraschi - che sono fra i più occidentalizzati nell’ambito del variegato e diviso mondo islamico. Più per spirito di previdenza che per esigenza di passiva cautela, è opportuno non soffermarsi sulle terre del Vicino Oriente, poiché le condizioni di profonda e radicale divisione che ancora albergano e le necessarie connessioni che il discorso su queste terre porterebbe a fare con le aree limitrofe e il "sancta sanctorum" dell’Islam, rendono massimamente irrealistico se non artificioso lo sviluppo di ipotesi e considerazioni che vogliono nascere sotto l’albero del realismo. Egualmente, va espressa la medesima considerazione su Israele, che fa parte a pieno titolo del contesto accennato, per quanto in esso inserito in termini di ancora aperta frizione. È perciò massimamente da respingere non come incauta ma come irrazionale, infondata e demagogica, l’idea espressa da taluni, come Fini e Pannella, di vedere in Israele la punta avanzata dell’Europa. L’artificio del riferimento alle strutture istituzionali è surrettizio e artificioso. Sommamente offensiva, al contempo, per gli israeliani e per i palestinesi e gli arabi in generale. Per i primi, in quanto quello che essi hanno fatto per avere una loro terra - per loro, la "loro terra" - certo non lo hanno fatto per tornare a sentirsi degli europei. Essi ritengono di avere ripristinato una loro identità "etnico"-religioso-territoriale, e non certo di costituire una provincia avanzata e al tempo stesso periferica dell’Europa. Per gli altri, quantomeno, per non confermare l’impressione abbastanza diffusa o l’idea fermamente predicata dagli esclusivisti e dagli integralisti di essere oggi i popoli islamici sottoposti a un nuovo attacco europeo e "crociato". Peggio ancora se tale attacco è inteso come euro-americano e insieme pan-cristiano. Un tutto di inscindibile ed esplosivo.
Torniamo alla grande realtà di oggi. Essa lascia qualche strascico nella memoria e più di un cruccio di sentimento storico nazionale, di dolorosa percezione del non completamento dell’identità nazionale italiana. Uno dei nuovi Paesi della nuova Europa è infatti Malta, piccolissima entità territoriale che non è altro se non un arcipelago italiano a qualche chilometro di distanza della costa siciliana, e con l’isola maggiore l’arcipelago ha sempre avuta legata e confusa la sua storia sino a che diventò possedimento inglese. Ciò suggerisce che, se la storia più recente avesse avuto un diverso svolgimento, oggi il processo unitario europeo, compresi i risvolti linguistici e burocratici, sarebbe stato più fluido ed esmplificato. Ma le cecità, le borie e i pregiudizi mostrano sempre il conto, come in questo caso, all’imprevidenza di turno, quella inglese, e ai suoi tardi spunti di "inimicizia" italiana (parlo degli anni sessanta, e del mancato "ritorno" all’Italia di Malta). Considerazioni non dissimili andrebbero fatte per la Corsica da parte della Francia e per Udine Nuova, Caporetto, l’Istria in riferimento alla Slovenia, altra entità statale "semi"artificiosa, nata dal disfacimento dell’altrettanta artificiale Jugoslavia. E ancora, la storia di Cipro, la divisione di Cipro, il rifiuto dei greco-ciprioti, nei giorni scorsi, di tornare all’unificazione dell’isola e così consentire alla parte "turco"cipriota di entrare anch’essa nella nuova Europa. Cipro, se non vi fosse stato il fanatico e, purtroppo, ancora per alcuni versi, irriducibile nazionalismo turco, sarebbe tornata ad essere parte della nazione greca poco dopo la morte dell’arcivescovo-presidente Makarios. Ma la Turchia dovrà, nei prossimi anni, disarmare con questo irrazionale nazionalismo antigreco, così come con quello contro gli armeni e i curdi. Queste sono le condizioni preliminari, ancorché il maggiore rispetto "formale" dei diritti umani nelle carceri per approdare all’agognata méta dell’Unione Europea.
Oggi, la nuova Europa, libera dalla tirannia comunista, forte di oltre 420 milioni di abitanti, è la terza potenza demografica, quasi quattro volte meno della Cina, due volte e mezzo meno dell’India, ma con uno sviluppo economico, con un benessere e con una condizione di crescita delle libertà soggettive irraffrontabili.
La Cina e l’India continuano per alcuni versi a rappresentare gli antichi imperi orientali, in particolare la Cina comunista, con un accentramento di potere nelle mani di ristrettissime oligarchie e con una struttura socio-economica vertiginosamente piramidale, ad onta delle moltitudini proletarie e sottoproletarie, more solito guidate da "intelligenze democratiche illuminate" e insostituibili. Tuttavia esse costituiscono il pericolo economico più prossimo per l’Europa, vista la grande capacità di produzione di merci, a contenuto tecnologico medio e a basso costo, che sta investendo e che investirà ancora di più i nostri mercati nei prossimi anni. Il dato demografico è già in forte evoluzione, infatti gli studiosi di demografia indicano che il rapporto della popolazione fra gli USA e l’Unione Europea si invertirà entro i prossimi cinquanta anni, salvo la realizzazione e la riuscita di politiche di incentivazione demografica. All’interno dell’Unione Europea, questo problema tocca in maniera molto rilevante l’Italia.
L’entrata nell’Unione di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Slovenia, Lettonia, Estonia, Lituania, Cipro e Malta costituisce una sfida all’esistenza della stessa Unione, poiché essa realizzerà lo spostamento di somme non indifferenti verso questi Paesi, e inoltre, fra l’altro, aprirà alla forte concorrenza interna e migratoria (all’inizio, in misura controllata) della manodopera operaia e del terziario. Ma non tutti i mali vengono per nuocere. Infatti, ciò potrà servire a calmierare la crescita del costo del lavoro laddove esso è stato eccessivo a raffronto degli indici quali-quantitativi della produzione e della crescita del pil, e ad evitare i fenomeni più esasperati e negativi della "mondializzazione", aiutando a mantenere le industrie in Europa, per quanto in parte - e dolorosamente per le ricadute sociali -, ridislocandole. Ben si comprende quanto si scrive, se si pensa agli operai del gruppo Fiat che rischiano la perdita del posto di lavoro in questi giorni, o a quelli di altre industrie che hanno trasferito la produzione in altre aree, come gli ex dipendenti pontini dell’americana Good Year.
Per intanto, festeggiare non è stato solo un atto formale e dovuto. È, si spera che sia stato, un atto sentito, frutto di adeguata convinzione. Con il primo maggio del 2004 si è festeggiata in fin dei conti l’Europa dei ventenni, l’Europa della generazione che più direttamente sarà coinvolta nella guida degli ulteriori destini e dei successi ulteriori, che ci vedranno già vecchi. Sarà quella l’Europa ancora di più allargata su cui qui abbiamo fatto cenno? Sarà l’Europa di maggiore prosperità e di risolti equilibri etnici e religiosi interni e con i popoli limitrofi? Sarà l’Europa che potrà maggiormente concorrere all’equilibrio planetario, tonificando i contrasti fra le diverse nazioni e mitigando i disaccordi con gli Stati Uniti? Ma anche l’Europa che concorrerà più apertamente nell’equilibrio della gestione delle risorse della Terra, nel superamento dei fenomeni più estremi del pauperismo e della crescita demografica incontrollata, della corsa nello spazio? Speriamo proprio di sì, senza eccessivi ottimismi e senza eccessivo spirito utopico.
Ma intanto prepariamoci ad avere, finalmente, una Costituzione europea, libera dalle spinte emotivo-confessionali. La religione, le religioni sono una grande riserva di risorse ideali e morali per gli uomini e le civiltà (di cui spesso sono diventate nel passato espressioni sinonimiche), ma a condizione del rispetto reciproco, del rispetto più completo anche verso coloro i quali hanno idee affatto diverse nel merito. La grande politica, la politica della nuova Europa, deve sapere mantenere questo riferimento laico come una costante ben radicata nell’animo dei legislatori e dei popoli. Ad essa è dovuto il ruolo di grande trasformazione della nostra storia. Ad essa potrà essere dovuto il futuro successo degli adeguamenti "spirituali" e "legislativi" degli altri popoli, senza bisogno di ricorrere a forzate e violente occidentalizzazioni, che possono durare quanto il volgere di qualche stagione.

Domenico Cambareri


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