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Latina. Torture e civiltà. Domenico Cambareri: «I nobili paludati della sinistra nostrana aspergono urbi et orbi il loro Verbo molto orbo»
La questione delle torture da parte di soldati americani e inglesi contro prigionieri iracheni
e afgani, esplosa ormai da diversi giorni, che infiamma la polemica spesso macabramente
strumentale del mondo politico italiano impone delle distaccate, disincantate riflessioni.
Certo non come mero atto consolatorio o mendace verbo per malefico viatico.
Va da sé che ogni guerra ha comportato e, come vediamo guardandoci attorno, guardando i diversi
conflitti in atto che insanguinano le più diverse contrade del mondo, anche in Europa,
comporta situazioni analoghe nell'accezione meramente definitoria della tortura. Accezione
che ci porterebbe, già sin dalle prime battute, inoltrandoci negli impervi e alfine perversi
sentieri della tortura, a considerazioni più articolate sulle tipologie di torture messe
in atto quantomeno nella contemporaneità ultima. E sui soggetti.
Sui soggetti. Che dire di quanto oggi accade e nel passato più prossimo è accaduto in regioni
e in regimi tanto cari ai nobili paludati con blasoni plebeo-rosso-sangue, come gli eredi
del Cossutta di dura cotenna ancor vivente e "nobiluomo" di eleganza classica d'altri tempi
e sopraffine, e il sindacalista-segretario rifondativo abitante in principesca residenza
romana, tutto sempre pimpante e vincente nello spargere e nell'aspergere urbi et orbi
il suo verbo molto orbo?
Eppure, questi signori plaudono e abbracciano un giorno no e tre sì il compagno del cuore,
il Fidel che ha fatto per venti anni del suo popolo l'esercito mercenario dei sovietici
in Africa, compiendo misfatti un po' ovunque. Eppure, questi signori nulla hanno chiesto
e chiedono ai compagni del Vietnam e della Cina sull'applicazione dei diritti umani
nelle carceri e sul controllo da parte di organismi internazionali delle condizioni
di vita dei segregati nelle carceri di questi paesi, e in particolare degli oppositori
politici, dei perseguitati per motivi religiosi, dei componenti di minoranze etniche,
dei condannati a morte. Anche, se poi, pur nel loro sfegatato e profondamente malato
antiamericanismo di professione, tacitano tante cose, come l'avere gli USA fatto
ammettere il colosso comunista all'interno del WTO, ossia del libero mercato
dell'immondo e sozzo mondo capitalista, laddove invece la Russia, l'ex Unione Sovietica,
è rimasta in lista d'attesa. Mondo capitalista in cui questi signori ci sguazzano a
piacimento più degli altri.
È bene e necessario quindi sapere distinguere gli interlocutori validi da quelli che
vogliono sempre proporsi come dei miracolati-miracolanti, dei vaticinatori della verità
taumaturgica
del proletariato antiamericano. E che invece altro non sono che dei poveri, profani
tarantolati, di gente che in forma indotta prolunga lo stato allucinatorio, di
pseudo-incantamento in cui emergono sopiti, distruttivi sedimenti onirici. Una vera diversa
umanità che trascorre i momenti e i mesi migliori della sua vita in manifestazioni "contro".
La questione delle torture va disancorata da queste stolide strumentalizzazioni, va
vista per quello che è effettivamente accaduto, senza tralasciare le lacerazioni sia
della coscienza civile sia del codice d'onore militare degli eserciti e delle nazioni coinvolti.
Inoltre, è da sottolineare che, non a caso, questi i accadimenti che sarebbero potuti
rimanere coperti, sono diventati di pubblica opinione. Non è soltanto questione
riducibile al cliché della società della libera informazione. Si tratta qui di un concorso
di più fattori, far i quali non si può non considerare centrale quello della forte
coscienza civile della gran parte degli occidentali, non ultimo proprio di americani e inglesi.
Il problema della tortura in guerra, e di certe condizioni operative, in cui la guerra
convenzionale cede il passo alla guerriglia, al mordi e fuggi e al terrorismo, è
un problema che accompagna l'uomo da chissà quali albori della storia, e che si è sempre
ripresentato nell'età contemporanea. Dai parà dell'Indocina francesi torturati dai
vietnamiti, parà che poi applicarono le stesse tecniche subite ai guerriglieri e patrioti
algerini, agli stessi algerini che torturavano ancora più crudelmente i francesi e via via,
in una peregrinazione incessante di teatri di guerre e di guerriglie (in cui i dati della
guerra civile italiana davvero vengono ben focalizzati nella comprensione comparativa
dell'atto guerrigliero e dell'attentato terroristico da parte di truppe irregolari), a
tutte le guerre e guerriglie e attentati endemici del mondo latino-americano, dell'Africa,
dell'Asia. Centinaia di teatri bellici spesso senza limiti estremi ben precisabili,
in cui, come ben sappiamo, dalla rivolta degli Ibo in Nigeria alla fine degli anni
sessanta, ad esempio, le torture e quindi le stragi si sono accompagnate in un intreccio
indissolubile. Per parlare doverosamente dell'acme dell'annientamento della natura e della
ragione e della speranza umana, nella sterminata mattanza dell'immane genocidio delle
risaie cambogiane. Luoghi, uomini e atti che erano espressione ripetuta delle più crudeli
azioni di sistematica tortura sino al conclusivo annientamento individuale e collettivo.
Sino all'annientamento stesso di ogni idea di umanità o di rispetto alla vita per degli
indefinibili esseri viventi. Senza lasciare traccia alcuna, se non le spoglie, le nude ossa,
le sterminate piantagioni e le fitte giungle di ossa.
Gli atti di tortura perpetrati in Iraq e Afghanistan da dei soldati americani e inglesi,
al di là dalle coperture, dalle complicità e dalle eventuali e presumibili (almeno in parte)
richieste da parte di superiori e di uomini dei servizi segreti, se sono diventati così
velocemente di pubblico dominio, lo sarà stato perché non vi erano state esigenze fondate
di ricorrere allo strumento coercitivo per ottenere informazioni urgenti atte a prevenire
o debellare grandi rischi.
Ma anche qui si apre una divisione problematica delle società occidentali, divisione che
vede schierati in maniera compatta cittadini, politici e capi delle forze armate. Esso
mette capo a una posizione di principio risolutiva, il rifiuto della tortura sempre e
comunque, che però la storia insegna essere difficilmente attuato e forse attuabile sul
terreno della pratica, ma che assicura una "identità" forte (in parte probabilmente
camuffata). Identità che aspira giustamente alla realizzazione oggettiva e universale
del miglioramento etico che giuridico dell'uomo, e che non può rinunciare all'idea
stessa di perfettibilità umana, pena la messa in crisi di tutto il patrimonio di valori
della cultura occidentale. La realtà storica insegna ancora che simili definizioni e
simili decisioni, sicuramente doverose come petizioni di principio, portano "dopo" a
trovare i soliti "capri espiatori", in quanto l'operare nelle condizioni più inimmaginabili
a livello tecnico ed emozionale condiziona e conduce, come ha condotto e come condurrà in
altri ipotetici casi, a scelte sul campo a volte decisamente e dolorosamente diverse.
Anche qui si ripresenta la solita, ovvia e ineludibile domanda: chi garantisce, chi
certifica della assoluta a-specifictà delle condizioni? Chi sanziona in via definitiva
e al contempo veritativa l'eccezionalità del caso e l'esigenza irrinunciabile di fare
ricorso allo strumento della tortura attraverso vie e passaggi funzionalmente,
burocraticamente appropriati e alla fonte legalizzati, o autorizzati dal potere esecutivo,
e confermabili attraverso inoppugnabili verifiche a posteriori? E poi, ancora, la
petizione di principio: sempre e comunque mai la tortura. Cose poco credibili, che,
come si sa, portano il potere politico in situazioni particolarmente scabrose ad affermare
risolutamente una cosa, ma su quanto fa una mano, non dicendo al contempo di
conoscere quanto fa l'altra mano. Ovvero, nel modo più candido, negandolo e ri-negandolo.
In questo specifico caso, le condizioni di sviluppo dello scandalo hanno messo a nudo le
proporzioni, la mancanza di motivazioni "necessarie e urgenti", e altro ancora, tanto che
perfino il presidente americano e il premier inglese in persona hanno espresso le più ferme
condanne e le loro richieste di scusa. Certo, si dirà, le scuse tali rimangono, sono solo
parole: ma sono scuse che in altre parti del mondo non sono mai state fatte perché l'idea
stessa risulterebbe inimmaginabile, e ancora oggi non vengono fatte.
La coscienza civile occidentale tuttavia corre dei pericoli che vanno molto oltre i
deprecabili casi delle torture: la sua accentuata, ostinata sicurezza circa la propria
superiorità, l'esasperato etnocentrismo culturale, giuridico e politico che la porta a
commettere errori gravi ed elementari, di generalizzazione e di tipizzazioni improprie di
fronte a cui un qualsiasi etnologo, storico delle civiltà, delle religioni e delle culture
"altre" non agirebbe affatto così. Qui vi è un'aperta miopia soprattutto dei centri di
studio che si ritrovano con i "think-thank" dei ministeri degli esteri, dei centri
politico-economici e degli stati maggiori.
È dal mio ultimo editoriale sulla guerra in Iraq, proprio qui su ParvapoliS, che non sono
più voluto intervenire nel merito, per evitare dietrologie continue, in ciò discostandomi
da quanti producono o vivono di informazione surrogata. La guerra non dichiarata contro
l'Iraq era ed è una guerra assolutamente classica, da "manuale", una guerra che perciò
era fallita nelle finalità ultime già in partenza, poiché l'amministrazione americana
le aveva camuffate con altre non "convertibili" con esse. La mancanza di addurre le effettive,
ciniche motivazioni ha creato per di più condizioni di frustrazione e di non soddisfacimento
degli istinti e dei bisogni di "giustizia è fatta" nelle masse statunitensi ed europee.
Per il semplice fatto che chi andava ricercato e annientato era un altro e stava altrove.
Ricordavo anche che, pur rischiando di sbagliare, la potenza con le maggiori responsabilità
mondiali e che era stata emotivamente colpita in maniera terribile, era difficile che
cambiasse le sue prospettive d'azione, poiché il complicato gioco delle azioni a catena
era stato messo in moto dall'amministrazione della Casa Bianca e non poteva più essere
fermato, pena l'autodistruzione della leadership politica di Bush jr. Oggi, a poco più
di un anno, vinto facilmente un conflitto quasi non combattuto - e, ripeto, non dichiarato -,
gli USA e i loro alleati sono entro un doppio collo di bottiglia incastonato in un cerchio
di fuoco. Il cerchio di fuoco è costituito dal terrorismo degli esclusivisti islamici che
risultano ancora irraggiungibili, ubiqui, e ai quali è stata data benzina a volontà
dopo l'invasione dell'Iraq. Il doppio collo di bottiglia è costituito dall'improvvida scelta
di attaccare e di occupare l'Iraq, anziché riversare tutte le energie in Afghanistan,
scelta che tuttavia va oramai sostenuta, almeno per diversi mesi ancora anche senza egida
ONU, per motivazioni e politiche e - proprio così - di equilibrata "logistica" nel passaggio
dei ruoli dai soldati occidentali a soldati di provenienza di nazioni islamiche
preferibilmente non arabe e non persiana e turca (superfluo a dirsi), o dell'ordinato,
programmato ritiro senza sostituzione alcuna, salvo quella dei poliziotti e dei pochi
soldati iracheni, con il concreto rischio di una terribile involuzione in una guerra civile
di cui sarà difficile prevedere la fine. E dallo scivolare, nell'esercizio improvvido e
difficilissimo del controllo del territorio, verso condizioni sempre più fluide di
contrasto e di guerra psicologica fra truppe occupanti, venute con quasi aleatori intenti
di liberare e di "guidare", e popolazione civile. Queste condizioni di attrito ormai
abbastanza diffuso da almeno tre mesi costituiscono le premesse per le migliori
condizioni delle attività di guerriglia e di terrorismo, attività facili da realizzare
anche a causa della permeabilità elevata dei confini iracheni, dell'infiltrazione e
dell'esfiltazione di uomini e di gruppi di cellule terroristiche varie e di diversa
nazionalità. Di fronte al compito a cui di USA e la Gran Bretagna si sono chiamati, la
panoplia tecnologico-spaziale e l'assoluta supremazia militare convenzionale non bastano.
È bene prendere atto degli errori e non allargare la frattura con il resto del mondo
islamico e con le Nazioni del Terzo e del Quarto mondo, visto che la questione irachena
è diventata, abbastanza a ragione, un vessillo. Basti pensare ai clamorosi falsi sulle
armi di distruzione di massa e sulle decine di "laboratori mobili" per giustificare
l'invasione, cosa che la NSA, la CIA e i servizi militari USA sapevano benissimo, visto
che ogni iracheno all'estero era controllato e visto che da anni la ricognizione spaziale
e l'ascolto elettronico tutto sapevano di quanto accadeva nelle segrete stanze di
Saddam Hussein. Per non parlare dei servizi inglesi e del Mossad israeliano. Inoltre,
l'accentuazione della pressione e del logoramento psicologico delle truppe in forme di
combattimento non convenzionali porterà ineluttabilmente e rapidamente a inasprire i
livelli della violenza. È la famosa spiralizzazione che è da evitare a tutti i costi. Gli
inglesi proprio con gli arabi e gli israeliani, oltre che con gli irlandesi dell'IRA,
gli americani con i vietnamiti, dovrebbero essere memori di queste lezioni della storia.
E allora accadrebbe che gli episodi di tortura non sarebbero più tali. Da ambo le parti.
Accadrebbe, potrà accadere, entro un futuro a medio termine. Con le inferocite prefiche
antiamericane prese da folle menadismo per le piazze di mezzo mondo, sempre quelle
libere e "occidentali", ovviamente. E con il terrorismo dell'esclusivismo islamico
ancora più baldanzoso e minaccioso di prima, pronto a galvanizzare ancora più innumerevoli
giovani in ogni parte del mondo. Per scelte assurde e dettate dal fanatismo,
con cui le passioni diventano l'unica voce di una falsa ragione che è in grado
di amplificare in tutto l'essere umano il dettato di comandamenti esaltanti ed estremi.
Domenico Cambareri
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