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Latina. Nuovi spiragli di pace. Domenico Cambareri: «Peresh getta nuova luce nella guerra senza fine tra Israele e il terrorismo palestinese...»
L'ultima dichiarazione di ieri del premio Nobel per la pace e leader laburista israeliano
Peresh, getta nuova luce nella storia senza fine delle guerre endemiche tra Israele e i
palestinesi, guerre endemiche in cui vengono ad essere coinvolti, più o meno "obtorto collo",
tutti.
Vista l'impossibilità di portare avanti l'azione di governo senza potere contare su dei
voti privi dei ricatti degli ultranazionalisti religiosi e degli oltranzisti del Likud,
il superfalco Sharon (al quale dal 1980 sono da addebitare alcune delle più impietose
pagine della storia dell'esercito israeliano) si è rivolto ancora all'avversario Peresh.
La proposta ha avuto un inaspettato esito positivo. Infatti, questo pomeriggio, (nd.r.:
ieri, per chi legge) nel parlamento israeliano le due mozioni di sfiducia al governo
Sharon presentate da parte dell'estrema sinistra e da parte degli ultraortodossi non
sono state approvate per l'astensione dei deputati laburisti. Il motivo strumentale
era rappresentato dall'approvazione di un ulteriore lotto di lavori nella costruzione del
famigerato muro.
Per la verità, da almeno otto mesi in più occasioni Sharon ha dichiarato che pur di arrivare
alla pace sarebbe stato disposto ad operare concessioni dolorose e prima per lui stesso
impensabili. È anche vero che gran parte di queste affermazioni non hanno trovato riscontro
nel calendario degli effettivi impegni e delle reali attuazioni del governo israeliano,
anzi sono state più volte ampiamente contraddette dalle sue decisioni. Tant'è che fino
alla scorsa settimana gli USA hanno avuto motivo di deplorare pubblicamente questa tattica
della dilazione del loro migliore alleato, tattica ritenuta nei maggiori fori internazionali
estremamente pericolosa, in quanto mirata a non abbandonare di fatto mai i territori occupati -
"road map" o meno - attraverso la cronicizzazione della spirale delle reciproche ritorsioni.
Peraltro, nella galassia dei movimenti e delle correnti israelitiche, non è da dimenticare -
per quanto se ne scriva poco - che vi sono gruppi ortodossi di rilevanza non secondaria
a nessuno che osteggiano da sempre in maniera diametralmente opposta la ragion politica,
dichiarando inconciliabile l'esistenza stessa del loro stato politico con la realtà del
messianismo ebraico.
Peresh ha dunque offerto la prima mossa concreta per possibilità di formare un governo di
coalizione nazionale, atto a salvare Israele dal sempre più accentuato isolamento
internazionale nonostante il suo grande dinamismo nell'ambito dell'industria strategica
più avanzata (settore della ricognizione spaziale, sistemi antimissili, nuove armi
statunitensi a ricaduta strategica per accentuare il grado della deterrenza e della
ritorsione nucleare su tutto l'immenso mondo islamico), della diplomazia, delle attività
economico-industriali civili con alleanze internazionali. Quali sono le condizioni
offerte da questa possibilità di accordo? Indubbiamente le solite, quelle che hanno
dimostrato più consonanza con la storia del movimento israeliano transpartitico
"Pace subito" degli anni ottanta e che riscuote maggiore condivisione in tutto il mondo.
Dall'Europa alla Russia agli Stati del Terzo e del Quarto Mondo, fra i quali vi sono non
pochi amici di Tel Aviv, anche fra i Paesi latino-americani come il Brasile, l'Argentina,
il Cile. Eccole: ritornare alle frontiere ante guerra '73 e anteguerra '67, con il
completo ritiro da Gaza e il ritorno integrale della Cisgiordania ai palestinesi.
Per Peresh, piccole rettifiche fra Israele e la Palestina dovrebbero riguardare oggettive
situazioni confinarie per la sicurezza di Israele. Questo significa il definitivo superamento
anche della questione di Gerusalemme Est, che tornerebbe ad essere capitale palestinese.
La questione di Gerusalemme è stata il problema dei problemi per tutti, ed è quello sul
quale cadde l'ex premier laburista Ehud Barak (il più decorato soldato palestinese, uomo
che ha agito anche nei reparti speciali attuando già allora eliminazioni fisiche mirate di
capi palestinesi). Così, mentre qualche esponente della coalizione al potere ha scritto e
forse ancora scrive sul nuovo conflitto mondiale alle porte per la radicalizzazione dello
scontro, come Ra'anan Gissin, portavoce del premier Sharon, nuove possibili alternative
si profilano all'orizzonte.
Sarebbe davvero un segnale di importanza immane, non solo per i popoli direttamente
coinvolti, quanto per tutto il mondo, giacché una concreta e ancora incredibile pace fra
israeliani e palestinesi, con la nascita dello Stato di questo martoriato popolo sulla
cui pelle tutti hanno giocato - inglesi, israeliani ed ebrei della diaspora, americani,
sovietici e non pochi governi di popoli "fratelli"-, segnerebbe una prevedibile svolta
anche nella lotta e nel confinamento in sacche geografiche sempre più ristrette e
individuabili dei terroristi dell'esclusivismo islamico. Essa sarebbe prodroma anche ad una
futura, definitiva ratifica di pace fra Tel Aviv e Damasco, laddove l'affermazione di Peresh
circa il ritorno alla situazione ante 1967 potrebbe significare se non il ritorno delle
alture del Golan alla Siria, la loro definitiva smilitarizzazione e internazionalizzazione,
risolvendo prima anche qui, come ovvio, il solito endemico problema delle "colonie", fatto
estendere a macchia d'olio dai governi nazionalisti
Guardando al contesto ben più ampio delle prossime mosse a livello planetario di Washington,
dagli importanti segnali della politica della sicurezza internazionale statunitense,
che è stata non priva di incertezze e di gravissimi errori di valutazioni e di decisioni
in questi ultimi due anni, apprendiamo infatti che gli USA stanno per includere, molti
anni dopo l'Egitto, altri Paesi islamici nella lista dei "migliori alleati " extra NATO,
lista di cui fanno parte in primis e con uno status tutto speciale Israele e Taiwan: fra
di essi Pakistan e Marocco con certezza.
Un ripensamento generale di Sharon prima della sua caduta porterebbe quindi davvero a
riconsiderare il quadro delle future prospettive dello scacchiere vicino-orientale e
dell' area del Mediterraneo allargato. Ma anche a dimostrare come in politica il realismo
e il riconoscimento non solo dei propri diritti quanto non di meno di quelli altrui è la
strada più foriera di buone nuove, e che i sogni di grandezza nazionalistica per un popolo
che ha subito i peggiori massacri della sua storia non portano invece da nessuna parte.
Porterebbe al coronamento del successo di trenta anni di accordi internazionali, dunque,
finora e purtroppo rimasti solo sulla carta. Sarebbe così il definitivo, conclusivo sbocco
del rivoluzionario viaggio di pace di Anwar el Sadat dal Cairo a Tel Aviv,
dall'intransigente leader nazionalista di Menahem Begin, il duro dei duri, e della
conclusione degli storici accordi di Camp David fra questi due indimenticabili leader
dopo diciotto mesi di snervanti trattative, il 26 marzo 1979, condotti con i buoni uffici
dell'allora presidente americano Jmmy Carter. E pure il migliore modo di commemorare
l'assassinio di un grande soldato e statista israeliano, Yitzhak Rabin, ad opera di un
sicario dell'ultranazionalismo ebraico. Ed è da quel luttuoso giorno che le sponde di due
popoli e di due territori in tutto e per tutto legati ineluttabilmente e volenti o nolenti
dalla storia si divisero ancora, in ulteriori e più sanguinose intifade. Ciò in un futuro
augurabilmente non lontano potrebbe diventare un triste ricordo da dimenticare. Assieme al
più inafferrabile, odierno, ubiquo fenomeno del terrorismo dell'esclusivismo islamico, che
tanta linfa e lievito strumentali trova nelle sanguinose vicissitudini israelo-palestinesi.
Di fronte a una simile chance, anche i più temerari e spregiudicati dei consiglieri di
Yasser Arafat, non potrebbero che dare il loro assenso. Ma prevarranno davvero le ragioni
della pace? La parola passa alla strana e pur necessaria accoppiata di avversari, Peresh
e Sharon. Dopo, dopo tutto, Israele non avrebbe più la possibilità di giocare altre carte
diplomatiche convincenti. E non di meno, la stessa cosa accadrebbe per il campo
palestinese, se i suoi rappresentanti dovessero rispondere picche.
Domenico Cambareri
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