Venerdì 02/05/2025 
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Latina. Dopo la campagna di difesa delle rotonde dagli artisti locali lanciata da Maria Corsetti su ParvapoliS, Pennacchi su L'Indipendente: «Vi lamentate ma un cazzabubu come quello di Pomodoro ancora non c'è»

A me già m’aveva fatto rodere che il Palazzo dello Sport di Roma – quello delle Olimpiadi del ’60, opera di Nervi e Piacentini, e che lungo tutti questi anni giusto qualche cronista affettato s’era permesso di chiamare Palaeur – adesso si debba chiamare, d’arbitrio e per imperio: "Palalottomatica". Ma come ti salta in mente? Dice: "Vabbe’, ma quelli ci hanno messo i soldi". E che vuol dire? Allora, un domani, se la Coca-Cola sponsorizza il restauro del Colosseo non lo chiamiamo più così, ma CocaColo? Ma tu sei scemo. Adesso, poi, il viaggiatore che dalla Pontina s’affaccia a Roma vede da qualche mese – poco dopo sbucato oltre il Raccordo, sceso correndo dalle pendici dove tuttora staziona il vecchio casino del Dazio, appena fermo al semaforo che discrimina la valle dell’Oceano Pacifico ed Atlantico – vede di fronte a sé, sull’ermo del colle, dove per tant’anni ci ha sempre e solo visto l’inconfondibile guisa del suddetto palazzo dello Sport, vede da qualche mese un cazzabubu strano. "Pare un albero di Natale", hanno detto al bar, "o un incidente stradale, con le macchine accartocciate una sull’altra" (la definizione invece che, in prima battuta, ha dato il Camparisoda è leggermente più colorita: "Uno stronzo arrotolato"). Trattasi al contrario – e purtroppo – di una monumentale scultura di Arnaldo Pomodoro, una vera gloria vivente. La sua opera è conosciuta ed apprezzata in tutto il mondo. È un vero Maestro, non si discute. Oltre tutto è anche geometra – non architetto – diplomato all’Istituto tecnico di Rimini ed impiegato per più di qualche anno, poco dopo la guerra, al Genio civile di Pesaro. Non so se mi spiego. Lui normalmente fa forme di metallo fuso – sfere, cilindri affusolati, frecce, vele – in cui si scorgono, tra le improvvise fessurazioni del bronzo dorato, le complesse nervature della civiltà della tecnica: ingranaggi dentati, micro e macroserialità di segni che addirittura preludono – come nella Colonna del viaggiatore del 1960 – ai circuiti stampati. Argan lo collocava nell’arte "segnica". Per me è invece un’arte fortemente evocativa, addirittura "narrativa". Per taluni quei segni – oltre che struttura interna e profonda della nostra civiltà – sarebbero anche la struttura che origina la forma complessiva dell’opera. A me sembra che invece ci sia cesura: c’è una struttura interna, di vita ed ingranaggi, e poi c’è una forma esterna, metallo colato, forma semplice, che ingloba ed annulla: Parce sepulto. È il canto di un futuro ancestrale – o di un’ancestralità futura – è quanto resterà di noi, fra migliaia d’anni, agli occhi di chi non ci ha mai conosciuto: c’è tutta l’aura di Karel Thole e delle sue copertine di Urania. Ma questa che ha fatto all’Eur gli è venuta male. Forse è colpa degli architetti che l’hanno posizionata lì, in cui la visione preminente è quella da lontano. In uno spazio più raccolto avrebbe fatto meno danno e qualche pregio sarebbe riuscito ad emergere. È la Torre del XX secolo, una forma conica alta 21 metri, con questo nastro che sale a spirale. Una specie di ziqqurat, Babele. Ma vista da lontano, dalla strada, dalla valle – man mano che ti avvicini allo spartitraffico – sembra solo, come ha detto in seconda e definitiva battuta il Camparisoda (cultore di porno oltre che di Benedetto Croce): "Il cazzo a trivella di Gola profonda", trivella rotante, per la precisione. Manco l’avesse commissionata Cè: "Benvenuti a Roma".

Antonio Pennacchi


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