Parvapolis >> Cultura
Catania. La magia di Giovanni Anfuso nel notturno cielo etneo
Giovanni Anfuso, giovane creativo e vulcanico regista, ha proposto per questa stagione teatrale una fedele e al tempo stesso innovativa interpretazione della tragedia di Euripide, Ecuba, interpretata con incisiva, asciutta, forte vigoria da Paola Gassman e da Sebastiano Tringali. Durante una magnifica serata sotto il nero e splendente notturno cielo etneo di fine agosto, in una suggestiva e sconosciuta cornice di archi a due ordini del bellissimo chiostro dell’Ospizio dei Ciechi, in cima a via Etnea, a Catania, ho avuto il grande piacere di assistere ad una rappresentazione di alto valore evocativo, psicologico, artistico. La rappresentazione di Ecuba ha avuto inizio alle porte di Latina, ad Ostia, città che nella tradizione antica italica si riannoda con tutta la costa laziale alla continuazione dei più remoti eventi dell’Asia minore e dell’Ellade, appunto a quelli delle antiche migrazioni via mare – maga Circe il Ponto e il Caucaso ce lo ricordano –, ed è proseguita per Sarsina, Benevento, Catania, Agrigento, Segesta, Tindari e sta proseguendo per altri centri della penisola. Il grande successo che Giovanni Anfuso sta riscuotendo con Paola Gassaman e Sebastiano Tringali tra le platee di un pubblico sicuramente molto motivato e altrettanto ben coinvolto, si concluderà entro metà settembre al teatro olimpico di Vicenza. Ho avuto quindi il piacere di conversare direttamente con il regista, del quale desidero riportare qui alcune delle sue affermazioni che ritengo meritorie di attenzione: "Chi crede di saper tutto della guerra – disse un giorno il prof. Pirandello ai suoi allievi - dovrebbe leggersi la Ecuba di Euripide. Imparerà qualcosa che lo dissuaderà dal fare guerra"! Ma "gli uomini non hanno memoria storica" fece eco qualche decennio dopo un altro siciliano: Leonardo Sciascia. Tutto questo è in Ecuba, e anche più! Perché questa, che una delle ultime tragedie di Euripide, non è solo il dramma della moglie del Re di Troia, ma è la tragedia della Regina di un popolo vinto, di una madre alla quale hanno sterminato la famiglia, e le rovine di Troia, su cui la pieces si apre, sono le rovine della stessa Ecuba.
Altera, dignitosa come solo una che guarda in faccia il dolore sa essere, sbaglia chi crede di trovare in quest’ultimo Euripide una donna arresa perché vinta. Ecuba, che in certi tratti assomiglia a quelle madri dei tanti siciliani ammazzati nella incredibile guerra per la difesa delle istituzioni, è una donna fedele al suo popolo, tanto più ora, nel momento della disfatta. Una donna regina che non cela il suo dolore di madre, e piange la morte dei figli, e soffre ma affronta, con l’arma della dignità, Agamennone generale delle forze armate avversarie, ed Odisseo, fido ufficiale, entrambi dal fare arrogante, piccoli e privi di dignità, che al suo confronto appaiono come mafiosi armati solo di cinismo spietato.
È una regina madre ed una madre regina, questa donna, che soffre per l’ingiusto trattamento che la sorte le ha riservato. Piena di pietas, con un forte senso della famiglia, Ecuba non conosce paura di fronte al nemico; ma come tutte le donne animate da una forte passione, in preda alla rabbia, trasforma il dolore in vendetta quando il tradimento arriva perpetrato dagli amici. Accecata dal dolore Ecuba acceca Polimèstore un tempo amico di Troia (omicida di Polidoro, figlio di Ecuba). «Gli amici si conoscono nei guai: ce n’è fin troppi nella buona sorte», dice questa regina vedova e orfana della sua prole. Non è un controsenso: per una regina madre di cosi tale dignità tutto è sopportabile, non il tradimento proveniente dagli amici.
Forse, parafrasando Quasimodo (ancora un altro siciliano), il titolo più giusto per questa tragedia sarebbe Mater Dulcissima, dove questa specifica, che non cela un chiaro significato allegorico, vale per Ecuba, vecchia regina, e vale per la terra di Troia, per le sue rovine e per i suoi morti ammazzati.
Ed è proprio nel librarsi di questo dolore che la tragedia di Euripide assume una straordinaria contemporaneità, tanto da apparire scritta oggi e non migliaia di anni fa, nelle nostre città e non in Grecia, ed i personaggi pur discendendo da quelle stirpi regali, hanno subito un processo di demitizzazione e di relativa umanizzazione che li rende tanto più vicini a noi, e la loro realtà simile alla nostra.
Troia, quindi, come eterna metafora del dolore, i loro morti come i nostri, le loro madri come le nostre.
Tutto ciò conferisce a questa tragedia uno straordinario potere conturbante. C’è qui un genio solitario e tormentato, che nel mito non trova più se non pretesti d’uno scavo nel cuore umano: vi sono figure consacrate da una tradizione augusta in nuove venture, con un’impavida audacia ed un mordente che gli anni non hanno incrinato, che superstiti si aggirano come scheletri mai pacificati fra le macerie di luoghi ormai a stento riconoscibili, e lontano o vicino nel tempo ogni tanto ci sussurrano: Voi vivete male, Signori!
Dopo questa nuova e ottimamente riuscita fatica, Giovanni Anfuso, del quale seguo già da alcuni anni gli impegni artistici, merita davvero di raggiungere traguardi ancora più ambiziosi. Dimostra infatti di essere un regista maturo a tutto tondo, deciso e convincente, mordace e capace di captare la tua attenzione e di coinvolgerti senza attimi di tregua nello snodo delle trame, con le sapienti scelte e le altrettanto sapienti interpretazioni degli attori. Qui, in Ecuba, prima fra tutti non per il ruolo primario ma per l’oggettiva e applaudita bravura, Paola Gassman.
Paola Sollenni
|