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Latina. Pacifisti e pacifinti. Teodoro Klitsche de la Grange: «I sacerdoti da operetta dell'estrema sinistra sono solo utili sciocchi»
Teodoro Klitsche de la Grange invita a riflettere. Con uno stile sobrio, asciutto ma profondo.
Senza livori ideologici. Sulle colonne dell'Opinione delle Libertà, il quotidiano
diretto da Arturo Diaconale, sostiene che
l’uscita di Fini contro il pacifismo - e a favore della pace - costituisce un chiarimento
necessario (anche se un po’ tardivo) su cosa sia la pace e cosa i pacifismi. La pace è una
situazione politica; il pacifismo un’ideologia (una pluralità di ideologie) il cui connotato
comune è credere d’aver trovato il rimedio contro la guerra. Raymond Aron lo riconduceva a due
tipi principali: da una parte “coloro che si dichiaravano contro la guerra (...) senza avere
né una teoria della guerra né una dottrina sui mezzi di pace”, mentre altri “fondano su una
teoria della guerra un’azione pacifica o bellicosa in vista della pace perpetua”.
Il primo è la parodia-negazione della politica, come ben vedeva Max Weber: perché essendo
la pace il risultato della conseguenza di più volontà (politiche) di pace, per fare la guerra
basta che uno solo non abbia siffatto volere. E tutti i pacifismi di tal fatta non servono
a nulla, se non, al contrario delle buone intenzioni professate, a rafforzare l’aggressività
del nemico, cioè di colui che ha deciso di muover la guerra. Infatti, in una situazione
conflittuale volere la pace significa, in termini politici e reali, non resistere al nemico
e alla sua volontà aggressiva: in altre parole lavorare per lui, debilitando la (propria)
volontà di resistenza. Così i partigiani della pace si rivelano, in concreto, gli attivisti
della resa.
Il peccato d’origine di tali ideologie è non riconoscere che la pace, come la guerra, è una
situazione politica, e che occorrono, per raggiungerla e conservarla, mezzi (e concetti)
politici. E questi sono l’astuzia e, più ancora, la forza. Rinunciare preventivamente
all’uso della forza significa così compromettere il raggiungimento del fine: la pace.
La seconda categoria di pacifismi appare più positiva e concreta; hanno una teoria delle
cause della guerra che, per eliminare l’effetto, vogliono rimuovere. Chi trova il rimedio
in una lega delle nazioni (Kant), altri nel commercio pacifico (Constant); altri ancora,
come i marxisti, nell’eliminazione delle proprietà (e dell’appropriazione) privata, e
conseguente sparizione delle classi (e degli Stati).
Il punto debole di tali dottrine è proprio nella concezione determinista delle cause, poco
adatta a rappresentare i motivi della volontà umana. E la politica non può fare a meno
della volontà - in sé libera - né del potere, della paura come della forza. La volontà e
le azioni non hanno delle cause ma dei motivi: e per fare la guerra, come scriveva Spinoza,
basta averne la volontà. Per cui mal impostando il problema sulle “cause”, anche queste
ideologie finiscono col trascurare l’aspetto essenziale, cioè quello politico. Peraltro,
proprio perché convinti di aver trovato la “causa” della guerra, in genere questi pacifismi
si trasformano in quanto di più polemogeno possa esistere: perché finiscono per sostenere
le guerre per eliminare le cause della guerra, e criminalizzare il nemico.
Ma né le istituzioni internazionali come l’Onu e la Sdn, né la diffusione delle democrazie,
i regimi comunisti o il libero scambio hanno evitato il ricorso alle guerre. La logica
dell’ostilità è così forte che riesce ad arruolare anche i pacifismi (e non pochi pacifisti).
Ciò di cui si ha bisogno per promuovere la pace è quindi una riflessione ed un'azione
politica e non il ricorso alle utopie.
Invece il pacifismo può diventare, e spesso diviene, l’alleato oggettivo della guerra.
Con le anime belle - e le mani pulite - non si fa politica (e quindi neppure la pace).
Per fare quella, come recitava il titolo di un dramma di Sartre, occorrono le mani sporche.
E un animo forse non altrettanto bello, ma realista e coraggioso.
Mauro Cascio
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