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CinepoliS. Pietro Valsecchi, il re mida della fiction d'autore, si racconta in una lunga intervista al nostro quotidiano on-line. Idee e progetti

Pietro Valsecchi - manager con sua moglie Camilla Nesbitt della Taodue- in questi giorni il suo nome è su tutti i giornali. Sua infatti è la creazione della fiction "Borsellino", trasmessa sulle reti Mediaset con record di ascolti. Può raccontarci qual è stato il suo percorso come produttore, sin dagli inizi?
«Ho cominciato come attore, moltissimi anni fa, nel movimento studentesco. Erano gli anni 70, c'era la sezione culturale all'interno del movimento. Si faceva teatro nelle scuole, nelle fabbriche. Io ho studiato recitazione, ho fatto per dieci anni teatro, all'università a Bologna, dove ho fatto il DAMS. Ho lavorato con molti registi teatrali, l'ultimo è stato Andrzej Wajda con cui ho fatto "L'affare Danton", facevo Saint Just. Proprio nell'81 ho capito che come attore non avevo più quell'interesse ad andare in scena che mi animava all'inizio. Ho capito che gli anni passavano ed io avevo più o meno trent'anni. Ho pensato "Se continuo così butto la mia vita", perché sentivo che non sarei stato un protagonista vero. Così ho smesso di recitare ed ho pensato di fare produzione. Avevo un amico, Michele Placido col quale avevo fatto un percorso comune di idee, di progetti. Piano piano ho cominciato a parlare con lui dell'idea di fare della produzione. Gli suggerivo dei copioni da leggere, per realizzare film. Il primo libro che ho comprato è stato "Mery per sempre" . Non avevo la forza produttiva per fare quel film. Così ho collaborato come produttore associato. Il film andò bene, diretto da Marco Risi. Fu così che decisi di fare il produttore. Aprii una mia società insieme a Michele Placido, Cineuropa92. Ho fatto debuttare Michele come regista con "Pummarò", la prima sua opera. Poi ho fatto un film con Marco Bellocchio, "La condanna", dove purtroppo ho rimesso tantissimi soldi. E Marco lo sa, e quando glielo dico si mette a ridere. Posso dire di aver fatto molti film, ma il più riuscito al cinema è stato "Un eroe borghese". Avevo comprato i diritti del libro di Staiano, ho lavorato molto con lui e con gli sceneggiatori. Alla fine mi mancava il regista ed ho coinvolto Michele Placido, gli ho detto "Fammelo tu se no non me lo fa nessuno". Ed è stato un grande successo, con Bentivoglio, con cui poi abbiamo fatto "Testimone a rischio". Dopo l'esperienza di "Testimone a rischio" che era un buon film ma non ebbe un gran risultato al cinema, mi ero un po' disamorato nei confronti del lavoro. Troppo impegno, troppo lavoro per poco pubblico e anche senza remunerazione, perché i film, si sa, sono sempre in perdita. Alla fine avevo preso i diritti di un libro, "Ultimo" di Maurizio Torrealta. Ho scritto più sceneggiature per fare un film al cinema, dopodiché il film non usciva come desideravo. Così Camilla Nesbitt, la mia compagna nella vita e nel lavoro, mi ha detto "Perché non lo fai per la televisione?". Io, che fino ad allora avevo sempre snobbato la televisione, ho detto "Ok, facciamolo per la televisione". Ed è stato un successo. Di lì è partita la mia avventura televisiva, con il sogno però sempre vivo di tornare al cinema. Peccato che ogni volta che penso di tornare al cinema, non ho mai tempo per farlo. Ho una sceneggiatura tanto bella ma non ho mai il tempo per farla».
Ora non si è ancora spento l'entusiasmo per il suo "Borsellino" che già si parla di "Karol. Storia di un uomo che è diventato Papa" . Certo non siamo ancora al momento dei bilanci ma, se guarda indietro, qual è il lavoro che le ha dato più soddisfazione?
«Ma sai, tutte le cose, quando le vivi al momento, sono care. Al cinema è stato sicuramente "Un eroe borghese". Per quanto riguarda la televisione, in questo momento Borsellino è una delle operazioni più alte, significative, più profonde ed emozionanti che ho fatto. Me lo ricorda sempre quel ritratto che ho lì -dice indicando il profilo del magistrato incorniciato a lato della scrivania- un dono della famiglia Borsellino».
Già all'anteprima al cinema Embassy, cui ho avuto il piacere di assistere, si respirava un'aria di grande commozione. Poi la messa in onda ed il pubblico che restituisce un consenso quasi senza pari per una fiction. Quello che si evinceva dalla sua intervista andata in onda di mattina su "Il grande talk" assieme all'interprete protagonista Giorgio Tirabassi, era una sorta di investimento emotivo, un coinvolgimento che sa più del lavoro dell'autore che di quello del produttore, nel senso comunemente inteso. È così? «Certo. Io credo che ogni film sia un viaggio straordinario con persone che poi si perdono, perché per ogni film incontri le famiglie, ci vivi insieme, ti emozioni, piangi, ridi, hai delle forti emozioni. Poi intraprendi un altro viaggio. Ogni film è un viaggio straordinario di conoscenza».
Scorrendo i titoli delle produzioni fiction della Taodue, si ha l'idea che le storie scelte non siano mai improntate alla certezza del prodotto di sicuro successo, ma piuttosto alla grande sfida, la sfida sia con grandi personaggi pubblici, storici sia, come nel caso del Papa, verso articolati e complessi momenti storici, dove il rischio produttivo, per l'appunto, è sempre più elevato. È un principio, un criterio di scelta?
«Senza dubbio. La nostra linea editoriale ci è cara da sempre. Le mie radici sono nel cinema degli anni 70. Io ho visto molto cinema in quegli anni. Parlo dei film di Rosi, di Petri, di Montaldo, di Pirro come "Indagine", ed ancora di Ferreri, Antonioni. A quei tempi avevamo un parco di registi straordinario, ed anche degli scrittori straordinari. Questa è stata la mia formazione, quella del cinema militante, il cinema di forte emozione che ti dava un senso della giustizia o, meglio, delle ingiustizie. Questo è il cinema che mi ha formato».
«Qualche settimana fa, su Rai Tre, è stato trasmesso un filmato dove De Sica, con un panama in testa, dal set della Ciociara, parlava dei suoi film. Diceva "Che dire? Credo di aver fatto un film "discreto". Anche Zavattini ha realizzato una "discreta" sceneggiatura". In tempi di film grandiosi, c'era una percezione definita dei ruoli, e non questa ansia di protagonismo di oggi, per cui ogni regista deve necessariamente sentirsi anche un autore altrimenti si sente sminuito nel suo ruolo. Lei che rapporto ha con la scrittura dei suoi film?
«È vero, viviamo in un mondo di grande protagonismo. Per me tuttavia la scrittura è fondamentale. È tutto ciò che tu immagini. E sono pochi gli scrittori che scrivono per immagini. Se io penso ad un personaggio, penso alle emozioni che mi sta dando in quel momento. Tornando a Paolo Borsellino, quando ho letto il libro di Lucentini, ho avuto una forte emozione per l'immagine di questo padre che viveva la famiglia ed il lavoro come se fossero un tutt'uno, con il coraggio di continuare la sua battaglia sapendo di avere dei figli, sapendo di poter essere colpito. Per cui ho visto in lui questo grande coraggio. E allora nella scrittura sapevo di dover tirare fuori questo coraggio. Oggi posso dire che abbiamo lavorato moltissimo sulla scrittura. Intanto nella scrittura di un film, ci si chiede per prima cosa: da dove partire? Partiamo da lui che si sposa, da uno che racconta una storia, da un delitto? Importante era trovare il punto da dove far partire l'arco narrativo. Bisogna in primo luogo lavorare sulla narrazione, sulla drammaturgia. Quindi bisogna lavorare molto sui personaggi, sulle loro esperienze, sui loro obbiettivi, sulle loro incertezze. Poi si fa una griglia, con la quale raccontare il percorso di un personaggio, e qui piano piano si cominciano ad accavallare le emozioni. Più hai del materiale molto complesso, più è difficoltoso creare una narrazione armonica e semplice che sappia arrivare dritta al pubblico. Il tutto sta a far arrivare le emozioni. Noi siamo chiamati per emozionare la gente, per farle pensare e capire in quale mondo vive, come quel personaggio ha vissuto, agito. Il tutto senza mai diventare retorici, o troppo sentimentali. Il problema è senza dubbio innanzitutto la scrittura. Successivamente bisogna mettere insieme degli attori, trovare un cast che deve dare verità ai personaggi. Poi c'è il tono del racconto, quello che dà il regista, decidendo dove mettere la macchina da presa, cosa e come riprendere, quali sono le emozioni che tira fuori. Infine c'è quell'altro linguaggio straordinario che è il montaggio, che aiuta ad assemblare tutto questo. In ultimo anche la musica».
Vi siete fatti trascinare, nella necessaria selezione dei materiali a disposizione, più dal Borsellino uomo pubblico o da quello che si muoveva tra le mura domestiche?
«Abbiamo cercato di unire il pubblico con il privato. Mentre sulla vita privata di Falcone oggettivamente avevamo poco, di Borsellino conoscevamo tutte le sue ansie di padre, sullo studio dei figli, sulla preoccupazione di lasciarli, come si vede in quella scena degli assegni che prepara di notte. Bisognava mostrare un uomo che cerca di rendere i figli consapevoli, tanto da arrivare ad un certo punto persino ad essere cattivo per non farsi ricordare. Borsellino aveva dentro un'angoscia talmente forte che non poteva che emozionare profondamente. Riproporre questo nella scrittura è stata la nostra sfida. Tralasciare questo, avrebbe restituito un Borsellino"freddo". Chi per esempio sapeva che Borsellino faceva dei doni, aiutava le famiglie? La scrittura doveva raccontare questo: cogliere dei momenti dove inserire le immagini. A volte tutto questo riesce, ma è una vera e propria alchimia».
Durante la lavorazione di Borsellino, era già in nuce il progetto sul Papa? Come regolarsi su questa ennesima grande sfida storica, oltre che quella di raccontare il Papa uomo e poi pontefice? Come avete deciso di relazionarvi con un argomento tanto complesso, specie all'indomani delle dichiarazioni del Papa a proposito del comunismo come "…male necessario".
«Ho deciso di intraprendere questo progetto due anni fa. Ho incontrato il Santo Padre in Vaticano due anni fa dopo "San Francesco" ed avevo deciso di fare la sua vita. Per incoscienza ho deciso di fare una storia sul Papa. Quel giorno che ho deciso, a casa da me c'era anche Zingaretti. Avevo bisogno di un grande attore polacco, che poi è stato Piotr Adamczyk. Il problema è stato che abbiamo letto moltissimi testi scritti sul Papa, tra questi quello meraviglioso di Gian Franco Svidercoschi. La sceneggiatura è stata scritta da Giacomo Battiato che ha fatto un lavoro enorme, di grande ricerca. Del resto Giacomo Battiato oltre che essere un ottimo regista è un grande intellettuale, un ricercatore. In "Karol Wojtyla. Storia di un uomo che è divenuto Papa" raccontiamo la storia di un ragazzo che fa teatro, un testimone di quel tempo che, tra nazismo e comunismo, alla fine di un percorso, si avvicina alla fede. E lo vediamo presentarsi a teatro vestito da prete. Tutti i suoi compagni sono sconvolti. E mentre gli altri nello stesso periodo hanno imbracciato le armi, lui compie il suo percorso con la fede e con la forza della parola. E alla fine diventa anche Papa. Il film infatti termina proprio quando Karol Wojtyla diviene papa. Il comunismo lui lo ha vissuto sulla sua pelle. C'è da dire che il problema del comunismo esiste ancora oggi in Polonia. Lo si ritrova nella burocrazia, in quella incredibile lentezza nel movimento».
Com'è questa ex fabbrica della Philip Morris in disuso, nei pressi di Cracovia, di cui sappiamo lei essere particolarmente orgoglioso?
«È la mia "piccola Cinecittà". È veramente straordinaria, un centro di cinema bellissimo. Ha grandissimi capannoni su molti piani. Sono più o meno 20.000 metri quadri, una struttura unica. Gli stabilimenti erano in stato di abbandono. Noi siamo entrati ed abbiamo creato la nostra "roccaforte" della produzione. Abbiamo persino ricostruito il ghetto ebraico all'interno».
Ho letto nel resoconto dell'inviato dell'Avvenire, che la parte interpretata da Bova rappresenta tre ruoli di sintesi. Può spiegarci meglio cosa s'intende?
«Certo. Il personaggio di Padre Tomasz non posso dire sia realmente esistito ma in effetti è l'unione di tre personaggi che ruotavano attorno a Karol Wojtyla, ciascuno determinante a suo modo. Noi abbiamo preferito unificarli.
Conosco la giusta gelosia che ogni autore nutre per le sue idee. Ma, dopo tanto successo, c'è qualcosa che vorrebbe realizzare in futuro? Ciò che lei definirebbe il suo progetto ambizioso?
«Sì. Sto pensando da tempo di realizzare la storia di Aldo Moro. Ho già incontrato la famiglia a cui ho esposto le mie intenzioni. Sto raccogliendo già materiale, testimonianze. Moro sapeva di poter essere colpito. Lo si capiva da alcune scelte che fece, quando, per esempio, aveva imposto alla sua famiglia la scorta. È come se avesse avuto presagio di ciò che sarebbe accaduto. Oltre alla storia di Aldo Moro, ho in previsione una fiction che racconti Nassiria, con una giusta distanza dall'accaduto. E poi ancora forse una fiction su Dalla Chiesa».
Quindi sempre storie di grande impatto emotivo per il pubblico?
«Questa è la nostra linea editoriale».

Donata Carelli


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