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Roma. Nord e Sud. Gianfranco Jannuzzo: «Sul palco cerchiamo insieme di sfatare i luoghi comuni che affliggono "polentoni" e "terroni"...»
Davanti le Telecamere di ParvapoliS Gianfranco Jannuzzo, in scena al Brancaccio con "Nord e Sud" fino al 13 marzo.
Tanti dialetti, un linguaggio colorito. Per quale motivo usare i dialetti, un modo per colpire
in modo più diretti chi guardi lo spettacolo? «Questa non è una domanda, è un monologo».
Se sono andata bene può sempre assumermi... «Sei bravissima. Mi è scappato il tu. Diamoci del
tu. Sì, hai detto già tutto.
Nord e Sud nasce dall'esigenza di legare alcuni brani del mio repertorio che hanno per
comune denominatore l'uso di dialetti, diversi. Ho sempre pensato che il dialetto abbia,
per la sua naturale immediatezza, spontaneità, ricchezza di sfumature, una forza di
comunicazione straordinaria e che riveli, quasi sempre, il carattere, l'intima indole di
chi lo adopera: Siciliano (io sono siciliano), Veneto, Calabrese, Ligure o Campano che sia.
O il vostro Romano. Anche voi avete un dialetto straordinario.
Intendiamoci: l'uso che ne faccio non ha nessuna pretesa filologica ne tantomeno letteraria.
Si tratta di cadenze, cantilene, modi di dire; piccoli ritratti di tipi e caratteri diversi:
buffi, goffi, paradossali, teneri, qualche volta amari ma sempre, mi auguro, verosimili.
L'intento è quello di scherzare, esorcizzandoli, sui difetti di noi meridionali:
indolenti, pigri, fatalisti, sognatori; contrapposti per tradizione ai nordici:
efficienti, lavoratori, produttivi, pragmatici. Vorrei, insomma, divertirvi e divertirmi
cercando di sfatare i luoghi comuni che affliggono "Polentoni" e "Terroni" e forse
dimostrare, senza offesa per nessuno, l'appartenenza all'unico ceppo quello italico,
la cui massima espressione: la "parola", fu tanto cara al "nostro" Manzoni, al vostro
"Pirandello" e al Petrarca di tutti. Ebbene io credo che la capacità che abbiamo -
comune a tutti gli italiani - di ridere di noi stessi, del nostri tic, delle nostre
imperfezioni, ci dia la possibilità di ridere, quando si allude a divisioni o secessioni,
anche di questo».
Dialetti con pari dignità della lingua italiana? «Certo. E i nostri ragazzi non li conoscono.
Per questo sono preoccupato. I dialetti dovrebbero essere studiati a scuola».
E oggi ci sentiamo anche italiani? «Assolutamente sì. Una identità sentita e partecipata».
Quanto studio c'è stato? «Tanto. Anche se ho una predisposizione naturale, diciamo».
E tu riesci a rivendicare la tua sicilianità, senza sfumare l'identità italiana...
«Io non è che rivendico, mica faccio un proclama. Sono orgoglioso di essere siciliano.
Punto». Ma la cosa più importante è che il pubblico si diverte...
«Gli italiani hanno un grande pregio. Sanno ridere di se stessi.
Ed è una bella cosa». Gino Bramieri è stato un tuo punto di riferimento. Cosa ti ha lasciato?
«Oddio, speriamo di avere qualcosa di lui. Intanto ho ereditato il suo pubblico. Il
pubblico andava vedere Bramieri e trovava anche me, che ero un ragazzotto di belle speranze.
Così quel pubblico si affezionò anche a me. Da Gino ho imparato tante cose. A cominciare
dalla sua umiltà e generosità. Ma io sono stato fortunato in questo senso. Perché
in realtà ho cominciato subito con i grandi: Rossella Falk, Turi Ferro,
Antonello Falqui, Gabriele Lavia, Valeria Moricone. E poi l'incontro con Pietro Garinei
che mi fa incontrare Bramieri. Se proprio non sei un brocco da questi grandi qualcosa
impari». Prossimi impegni? «Io è tutta la vita che sono di fare "Liolà" di Pirandello.
Ed oggi pare che questo sogno stia diventando realtà. In più lo farò con la regia di
Gigi Proietti, anche questo un desiderio di anni. Io tra l'altro proprio nella scuola di Gigi
ho mosso i primi passi, correva l'anno 1978. Lui bontà sua mi ha sempre voluto bene.
Vedremo come verrà...».
Elisabetta Rizzo
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