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Latina. Comunismo e nonviolenza. Francesco Pullia sul difficile accostamento proposto da Bertinotti. La figura e la lezione di Aldo Capitini
Vorremmo dare atto a Fausto Bertinotti di essere in buonafede quando si sforza, con
funambolismi degni della migliore tradizione circense, di coniugare due termini così
antitetici come comunismo e nonviolenza. E, tuttavia, nonostante gli arditi contorsionismi,
risulta subito palese quanto l’accostamento sia improprio e privo di fondamento.
Francesco Pullia osserva:
«Concepire, come fa il segretario di Rifondazione Comunista, la nonviolenza come “lo strumento più coerente verso il comunismo” significa, infatti, attestare un’evidente incomprensione, sia dal punto di vista storico-metodologico che da quello contenutistico, della prospettiva liberale e liberante racchiusa nell’elaborazione nonviolenta, prospettiva nettamente antitetica ad ogni forma di accentuato statalismo e di collettivismo avvilente e degradante nei confronti dell’individuo. Nel tentativo di assicurare sostegno alle proprie tesi, Bertinotti ha cercato di appropriarsi dell’insegnamento di Danilo Dolci e, soprattutto, di Aldo Capitini, il filosofo che più di ogni altro ha dato un’accezione costruttiva, positiva, affermativa alla nonviolenza inquadrandola all’interno di una suggestiva e rigorosissima visione etico-religiosa.
Danilo Dolci, che, tra le più intense voci liriche del Novecento, meriterebbe maggiore attenzione anche sotto il profilo letterario, è stato sempre consapevole che i processi di liberazione non nascono da sostrati ideologici ma dalla capacità di far convergere verso un significato unitario un insieme frammentario di storie di vita, di differenze, anelanti congiuntamente ad un processo liberatorio. La sua maieutica plasmata dalla e nella reciprocità, il suo progettare dialogante sono espressione dell’urgenza di costruire il presente prefigurando il futuro (come non pensare, in questo caso, al “regno di Dio in noi” tolstojano che tanto influenzò anche Gandhi!), di vincere l’inerzia e il parassitismo (è nota la polemica contro il “farsi zecca”) per assicurare, passo dopo passo, una crescita, un’aggiunta. Dolci, come ebbe a scrivere Capitini in “Educazione aperta” (La Nuova Italia, Firenze, 1968), annuncia una posizione ben precisa, trasfiguratrice del male, “che non invoca troppo, ma vede più sobriamente Dio come misura di esattezza, di concreta unità, amore per tutti trasformato in tutti e di liberazione”. Come Capitini, egli si prefigge la piena valorizzazione di un potere decisionale “dal basso”, che passa (e qui si approfondisce il divario con il comunismo) non attraverso l’azzeramento del soggetto ma, al contrario, tramite un’eticità dell’operare che, come una levatrice, suscita, esalta e tesaurizza le diverse singolarità per indirizzarle, convogliarle verso un’attiva corrispondenza con un tu, con l’altro. Non a caso, specialmente negli ultimi dieci anni di vita (è morto nel 1997), ha insistito in maniera anche ossessiva sul passaggio dal trasmettere (la trasmissione come dire unidirezionale, verticistico) al comunicare (la comunicazione come accrescimento delle proprie potenzialità e invenzione di nuovi rapporti, come cardine di una società aperta). Il potere, per Dolci, è una facoltà che ognuno di noi possiede e deve esercitare al meglio. Quello cui invece anela il comunismo, nelle sue forme “reali”, è il dominio, l’estinzione della subalternità di una classe attraverso l’estensione dell’uso coercitivo, e quindi violento, di una volontà assolutistica, livellatrice, negatrice dei diritti individuali. Da qui, il passo a Capitini, che ancora più di Dolci rimarca una distanza concettuale e di prassi dal modello comunista, è estremamente breve. Il filosofo perugino riscontrava, infatti, un nesso profondo tra socialità e individualità tenendo, però, sempre ferma un’attenzione mazziniana alla massima espansione del singolo, della coscienza individuale. Non a caso all’Uno-Tutto, cioè all’insieme come totalità onnipervadente, egli sostituì l’Uno-Tutti, vale a dire una coralità costituita dal concorso di infinite individualità (si pensi alla splendida silloge “Colloquio corale” pubblicata sul finire degli anni Cinquanta, all’incirca nello stesso periodo in cui uscì il libretto“Rivoluzione aperta”, dedicato all’esperienza nonviolenta di Danilo Dolci). In uno scritto significativamente intitolato “Insufficienza delle teorie del Marx e del Lenin”, contenuto nella raccolta “Il potere di tutti” (La Nuova Italia, Firenze, 1969), Aldo Capitini riscontra nel marxismo-leninismo elementi “di forza, di sopraffazione” e, quindi, una concezione vecchia, logora, della società e della convivenza, in alternativa alla quale afferma la compresenza, l’apertura nonviolenta come “rivendicazione dell’esistenza, della libertà, dello sviluppo di ogni essere”. E, con altrettanta risolutezza, ritiene errata la posizione “di coloro che vogliono trasformare la società usando la violenza di minoranze dittatoriali”. E cos’è, ci chiediamo, il comunismo, così come storicamente lo abbiamo conosciuto, se non, appunto, “violenza di minoranze dittatoriali”? E’, pertanto, azzardato da parte del segretario di Rifondazione Comunista il tentativo di fagocitare la lezione di un pensatore che, per propria formazione (spiritualista, kantiana, mazziniana, gandhiana), non si riconobbe e non poteva riconoscersi nel totalitarismo comunista. Non è secondario ricordare, a questo proposito, che lo stesso Capitini coniò il termine “liberalsocialismo”, anteponendo non a caso liberalismo a socialismo, per sottolineare un moto di reazione allo statalismo autoritario del socialismo. “Il liberalismo nella sua essenza”, si legge in “Nuova socialità e riforma religiosa” (Einaudi, Torino, 1950), “è il senso della creazione attuale, della presenza dell’anima pienamente in atto, di quella creazione attraverso il valore (estetico, filosofico, etico, politico, ecc.), che è liberazione interiore, affermazione del meglio”. Ma il liberalismo non è forse per Bertinotti e per chi si riconosce nelle sue idee un mostro da estirpare perché brutale,“selvaggio”, colpevole di ogni sorta di male sulla faccia della Terra? Non va, infine, trascurato un altro aspetto, anche questo tutt’altro che marginale. Ci riferiamo alla questione impropriamente detta “palestinese”. Tre anni fa, in un saggio ospitato dalla rivista “Nuova storia contemporanea” (anno VI, numero 3, maggio-giugno 2002), e intitolato “Aldo Capitini, Israele e il mondo arabo”, Gabriella Mecucci rendeva pubblico uno scambio epistolare inedito tra il filosofo della nonviolenza e Lucio Lombardo Radice in cui il primo, subito dopo la fine della guerra dei Sei Giorni, difendeva in modo inequivocabile Israele muovendo durissime critiche al mondo arabo. “Tu parli di espansionismo israeliano ”, scrive Capitini nel 1967 rivolto al comunista Lombardo Radice, “che mi sembra alquanto irreale, pensando ad un popolo di poco più di due milioni in mezzo a cinquanta milioni di avversari; tu dici che i soldati dovrebbero tornare tutti nei precedenti confini di Israele senza annessioni, e questo mi sembra, preso alla lettera, alquanto irreale nella situazione”. E ancora: “Bisogna muovere dalla chiusura dello stretto di Aqaba, dalle forsennate hitleriane minacce di Masser e i suoi amiconi. Se Isarele ha fatto una guerra lo si può censurare solo dal punto di vista nostro…e non dal punto di vista degli Stati attuali, che è quello vostro ( cioè dei comunisti, n.d.r.). E mi sembra sommamente inopportuno che l’Unione sovietica torni a mandare aerei e carri armati all’Egitto”. Il carteggio fa parte del Fondo Capitini depositato a Perugia all’Archivio Centrale dello Stato, busta 1092. E, allora, non sarà forse giunto il momento che Fausto Bertinotti, anziché avventurarsi in territori a lui ignoti e in cui non può che trovarsi a disagio, si chiarisca un po’ le idee?»
Mauro Cascio
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