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Latina. La lingua da salvare. Escluso l'italiano dalla sala stampa dell'UE. Renato Gabriele: «Ma la situazione è disperata persino da noi»
L’uso della lingua italiana è stato recentemente escluso dalla sala-stampa dell’Unione Europea di Bruxelles, in tutti i giorni della settimana salvo il mercoledì. Il provvedimento, giustificato dalla necessità di contenere i costi delle traduzioni, ha causato qualche protesta per via diplomatica, oltre le solite prese di posizione politiche destinate a durare lo spazio d’un mattino, per spegnersi con il cessare dell’interesse mediatico della notizia, scarso fin dall’inizio.
Suppongo che nella questione convergano ragioni pratiche e motivi di prestigio nazionale tali da consigliare le iniziative prese a sostegno della conservazione della lingua italiana come lingua di lavoro. Mi domando però se ci si possa adontare per l’esclusione ( che forse attesta anche una diminuita considerazione del nostro Paese nel campo internazionale) dopo che la lingua nazionale non pare godere di prestigio neppure in casa nostra né ispirare la formazione di una coscienza di salvaguardia.
Le istituzioni che hanno di mira l’interesse degli studiosi e degli amatori della nostra lingua, sono costantemente costrette ad operare tra difficoltà ed avversità, specialmente nel reperimento del sostegno finanziario proporzionato all’importanza degli scopi istituzionali. Fra tutte queste nomino l’Accademia della Crusca che, nonostante il plurisecolare prestigio, ha molto affannato, in epoca recente, per restare attiva.
La vita di stenti a cui si sobbarcano gli enti culturali che della nostra lingua si occupano, indica un generale disinteresse per la questione, tale da ridurre, per molti, per troppi, l’italiano parlato e scritto ad una lingua impoverita, incolore e senza smalto, i cui statuti sintattici e l’abbondanza lessicale paiono ormai muri cadenti e materiali di risulta di quelle che furono un tempo architetture sublimi e marmi pregiati. È ormai assodato che il numero delle parole di uso quotidiano è, per molti, di poco superiore alle trecento. Si comprende facilmente quanto siano limitate, per quelle persone, le possibilità di una comunicazione appena sufficiente ad esprimere i più urgenti bisogni o a descrivere i più elementari sentimenti. Questa carenza linguistica produce notevoli difficoltà nella stessa formazione del pensiero: ad un minor bagaglio linguistico corrisponde non solo una difficoltà, se non l’impossibilità, di comprendere l’altrui pensiero ma anche una crescente difficoltà nella formulazione di pensieri fra di loro correlati.
Questo dato impensierisce se si considera che i parlanti di cui si tratta non appartengono solo ai cittadini di bassa istruzione scolastica ma anche a quelli che hanno compiuto regolari studi superiori ed universitari. Di questa lingua dei semicolti ha dato una ricca e lucida documentazione Leonardo Benevolo, che ha riportato un’ampia casistica da lui rilevata tra i suoi studenti, di cui ha messo in luce la disarmante ingenuità linguistica, per non dire l’allarmante ignoranza. In questi casi si è soliti parlare di analfabetismo di ritorno ma con un gioco di parole è lecito domandarsi se mai vi sia stato un alfabetismo di andata.
I problemi della lingua nazionale, è vero, non sono stati mai pochi ad iniziare dal faticoso impianto di una lingua comune sui ceppi preesistenti. Il risultato in molti casi non brillantissimo è stato quello della formazione di una lingua media abbastanza scialba, specialmente nella sua forma burocratico-romana, per così dire, cioè nella lingua artificiale dei rapporti, dei bollettini, delle denunce, della politica: una lingua ministeriale che si è sublimata nella stucchevole lingua della televisione, principale, quando non unico, mezzo di diffusione linguistica. E dire che avevamo cominciato con la lingua di Dante! Lungo è stato il tragitto da quella alla lingua selvaggia, la lingua degli squali e dei nuovi cannibali. Ma avremmo mai potuto vetrificare una lingua perché non cambiasse, perché non tradisse gl’inizi? Certamente no. Per fortuna tra i due estremi c’è molto e di tale valore da suggerire la gelosa conservazione, con lo sguardo però rivolto al futuro!
Forse che una lingua si difende soltanto con il custodirne i cimeli od organizzando crociate puristiche? Ancor una volta no. Del resto non vi è mai stata qualche autorità, fin da Lorenzo Valla, da Pietro Bembo, qualche commissione capace di fondare una normativa grammaticale, una morfologia da tutti accolta con universale consenso. Al contrario, in tema linguistico l’autorità è spesso contestata e proprio nella trasgressione risiede a volte il fattore vivificante di una lingua, nello scarto grammaticale, nell’invenzione verbale, nella decostruzione sintattica. Insomma, di fronte all’Eugenio Montale di Ossi di Seppia e de Le occasioni, che scriveva in una lingua poetica ormai desueta ma bellissima e, questa sì, molto italiana, sublime nella sua levigatezza, stanno, per citare alcuni innovatori, Palazzeschi, Gadda, e poi La Capria e D’Arrigo... Ma tutti insieme, con molti altri, costituiscono la nostra grande tradizione. A mio parere, come la nostra più recente storia letteraria contempla principalmente figure di poeti, allo stesso modo l’evoluzione della lingua – non soltanto da noi anzi da noi con ritardo – si determina nell’opera dei poeti.
Nel cosiddetto secolo breve non avremmo potuto conservare le forme auliche con le quali le classi colte e magnatizie hanno sempre identificato lo splendore della loro condizione sociale, trasformando di fatto la lingua in un attributo, quando non in un vero e proprio strumento, del potere ( lingue specialistiche, sempre criptiche, esclusive, insidiose); non avremmo potuto conservare le strutture preesistenti, dopo due disastrosi conflitti generali e mille altre sanguinose guerre, dopo l’annullamento di tante frontiere e l’abbattimento di muri, e dopo l’erezione di nuove barriere e di nuovi pregiudizi... Non potevamo salvare una lingua consunta e svuotata e tuttavia tronfia come una nobile decaduta, e con essa aspirare alla modernità, dopo il fenomeno beat e dopo la diffusione del pop internazionale, per citare solo due emergenze sottacendo dei numerosi ismi che hanno avuto posto nel vasto panorama sotto i nostri occhi.
È ancora vivo nel mio ricordo il serrato dibattito sulla lingua avvenuto nei primi anni sessanta, credo nel 63, ad opera di autori di primo piano, tra i quali Moravia e Pasolini. Proprio il 1963 segnava l’uscita, per Mondadori, della prima traduzione italiana dell’Ulisse di Joyce, da cui non pochi scrittori hanno tratto significativi spunti innovativi. Ma era anche da poco uscito da Feltrinelli Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, la cui lingua non era certo innovativa come quella del Pasticciaccio di Gadda o di Ragazzi di vita di Pasolini. Questa coesistenza di lingue di segno alto forma il crogiuolo alchemico che ribolle e può anche generare composti esplosivi. Il contrario di tutto ciò è soltanto scialba convenzione linguistica e piatto conformismo.
Forse che allora dovremmo parlare, se non proprio nella lingua dei poeti e degli scrittori, in qualcosa di somigliante? Potrei dire: perché no?, visto che la lingua di questi, impastata di nuovi apporti, di nuovi stilemi nel libero versificare, di nuovi fonemi e di nuovi semantemi, si è molto avvicinata al parlato della gente? Sì, una lingua si può difendere seguendo l’insegnamento dei poeti e degli scrittori da quella lingua prodotti e che quella lingua producono. Questo manca, proprio questo, agli Italiani (ovviamente parlo dei grandi numeri indicati dalle statistiche: inquietanti!). Essi leggono poco in generale e frequentano pochissimo i poeti. Se lo facessero sarebbero naturali difensori e innovatori e scopritori della lingua italiana, allo stesso modo in cui tante persone anche di modesta cultura si esprimono bene nella discussione dei temi calcistici domenicali. Si tratta di un’utopia? Sì, di un’utopia, fin a quando la conoscenza dei poeti avverrà soltanto sui banchi di scuola e solo con intenti di studio, una noia come poche altre! Naturalmente quando parlo di poeti non penso a certi bavosi questuanti di consensi e di allori, gente disposta a vendere la dignità pur di acquistare una fama caduca come tutte le miserrime cose umane, né alludo alle conventicole organizzate che si sfamano alla mensa della poesia infangandone persino il nome. Da costoro nulla si potrebbe imparare. Penso invece ai poeti affamati, ai poeti indigenti, ai poeti maledetti, a gente come Dino Campana, gente rinchiusa in manicomio: ai poeti grandi perché sventurati; penso ai poeti della passione e del sentimento, quelli sì che hanno una lingua da salvare. E la salvano. Non saranno certo le carinerie furbette degli sperimentatori, non sarà la loro lingua artificiosa ad essere salvata.
Riguardo il rimedio proposto v’è però da soggiungere che si tratterebbe soltanto di salvare il salvabile giacché la deriva della nostra lingua segue il flusso delle altre. Si va ineludibilmente verso un’ibridazione con la dominante lingua inglese. Troppi sono i settori specialistici in cui non apportiamo lemmi italiani. Si pensi al campo informatico ( dove per esempio è fallito il timido tentativo d’introdurre stabilmente la parola calcolatore); si pensi al mondo delle scienze in generale, a quello della moda, allo sport ed a tanti altri, primo fra tutti quello della finanza.
In passato i barbarismi venivano assorbiti nella grafia italiana e nella pronunzia della nostra lingua tanto da non riuscire, alla fine, distinguibili come parole straniere. È davvero difficile che un siffatto processo accada oggi, quando invece un diffuso atteggiamento tra i parlanti impone quasi la ricerca capziosa di parole straniere, introdotte direttamente come tali nel discorso. Insomma, la parola pile che indica un tessuto molto caldo e leggero, diverrà un vocabolo italiano solo se sarà pronunciato com’è scritto: pile, oppure se sarà pronunciato pail e scritto com’è pronunciato. Ma con tutto ciò gli resterà una connotazione di stranierismo. Una parola, in questo caso un verbo, che invece si è tramutato in una parola italiana è formattare, brutto quanto si voglia ma italiano. I processi comunque sono lenti. Ci son voluti molti anni per passare da frigidaire a frigorifero. Per la lingua nazionale potrebbe accadere in qualche maniera quel ch’è avvenuto per i dialetti che, non avendo accolto le forme collegate alle scienze moderne né alle nuove forme del vivere, restano relegati in un ambito di frequentazione nostalgica né producono più una poesia che non sia, in molti casi, stucchevolmente bozzettistica. Vero è che l’italiano si è arricchito dell’inserimento di molte forme dialettali che vi hanno spesso trovato posto apportando certi smaglianti colori, anche se dal tono popolaresco e con qualche tendenza alla volgarità.
Una cosa è certa, a salvare una lingua non saranno i provvedimenti nazionalistici come quello applicato in Francia dove, nel gioco del tennis, non si adotta la terminologia inglese ma quella francese, oppure come quelli di marca fascista introdotti in casa nostra nel deprecato ventennio, durante il quale si arrivò al ridicolo con il vietare i nomi di persona dal suono straniero e con il modificare in filmo la parola film, che in ogni caso ebbe più fortuna nella forma pellicola.
Che cosa dobbiamo aspettarci dai processi in atto? Io credo che ne risulterà una lingua flessibile straniata e bastarda, non meno espressiva della nostra attuale. A patto che si riesca comunque a salvare una dignitosa forma scritta, che si riesca a conservare alla lingua la sua funzione insopprimibile nel percorso di ogni umana conoscenza: ci vuole una lingua per la filosofia per la psicologia per la letteratura per il diritto…Ci vuole infine amore, un amore come quello di Elias Canetti, intendendo quell’attaccamento alla parola come elevato atto umano pieno dell’antica sacralità del verbo, non strumento di potere sacerdotale ma mezzo a disposizione di ciascuno paritariamente. Per questo, per questo motivo parlavo dei poeti, anche di quelli di loro che alla fine avranno scritto una sola bellissima poesia, quella che solo un declassamento culturale e una caduta di ogni autonoma facoltà di giudizio non fa riconoscere per tale. Ce ne sono, li ho conosciuti, di poeti eremiti, di poeti solitari, anche tra la gente sprezzantemente definita comune. I poeti, alla fine! Essi sono i possibili difensori, poiché sono capaci di scrivere anche per la sola suggestione esercitata su di loro da una sola parola intorno a cui elevano incredibili e misteriosi castelli. Essi evocano i sepolti significati e tentano arditi accostamenti e scardinano gli ordini consolidati, conoscono la lingua umbratile e quella solare e quella del dolore e della gioia e le fratture e le cesure e i rivoli e le risorgive e le depressioni carsiche e le vulcaniche estrusioni dei materiali linguistici. Sono loro a spostare in avanti il sistema dei simboli.
La lingua morrà, sì, se non avremo saputo riconoscerli; morrà, sì, se resteremo sommersi nella melassa nociva dei giochini enigmistici pensati a tavolino. Nuova lingua e perciò lingua salvata vi sarà se torneremo a stupirci e se sapremo risillabare la sorpresa dei sensi e della mente. Altrimenti ci resterà la meccanografia nominalistica delle cose brute. Ma quella non ha bisogno di essere salvata perché si salva da sé, autoalimentandosi.
Renato Gabriele
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