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Latina. 25 aprile. La Resistenza è oggi un mito? Un valore? Un esercizio fazioso e demagogico? Mario Leone: «Importante la memoria»
Una domanda che per molti in questo 60.mo anniversario della Liberazione potrà avere un significato più o meno scontato: fu un momento eroico o il tentativo postumo di trasformare una sconfitta in una vittoria? Fu un'insurrezione popolare o la lotta di pochi coraggiosi? Il 25 aprile 1945 si tracciava sicuramente una linea, benché poi sottile, di demarcazione tra il mondo della sofferenza inflitta dalla guerra nazi-fascista e un altro tipo di "sofferenza" quella della ricostruzione, morale, economica, culturale e politica del Paese (nella foto l'ingresso a Milano il 25 aprile 1945 delle truppe Alleate).
La resa della Germania di Hitler indipendentemente dalla sua volontà sul territorio italiano alla fine di aprile 1945 e l'esecutività dal 2 maggio del patto che acclarò formalmente la disfatta, hanno avuto tante rappresentazioni. Ciò che può sottolinearsi con certezza è che la Resistenza non è più «intoccabile» come lo è stata fino a qualche anno fa. Gli storici discutono, le «revisioni» avanzano, le polemiche si sprecano.
Enzo Biagi in una intervista sul 25 aprile di una decina d'anni fa su Sette del Corriere della sera seppe lucidamente rispondere a Michele Brambilla sul perché anche storici di sinistra, come Romolo Gobbi, autore del libro "Il mito della Resistenza (Rizzoli)", sostengano che la Resistenza sia stata molto enfatizzata; "anche i garibaldini sono stati enfatizzati - affermò Biagi -. Certo, la Resistenza ha delle pagine altissime e delle pagine miserabili. Era fatta da uomini. E fu determinata soprattutto dalla chiamata alle armi da parte della Repubblica sociale, perché per gli italiani la guerra era finita l'8 settembre. Quella fu la grande illusione. Perché la guerra continuava, e c'è stato un momento in cui uno doveva scegliere. Da una parte o dall'altra. Qualcuno ha fatto il partigiano per convenienza? Può darsi. Altri lo hanno fatto per seguire un ideale".
Ma la consapevolezza della gente c'era, allora, fra la gente? Sul fascismo, sulla democrazia, sul comunismo... "La preparazione politica degli italiani era pari allo zero - sottolinea Biagi -. E già il fatto di scoprire cos'era il liberalsocialismo fu una grande conquista". Quindi la Resistenza è «un mito»? È sbagliato, ma è sbagliata anche una certa retorica di segno opposto.
Un altro storico, Renzo De Felice, sostenne che alla Resistenza partecipò una parte esigua della popolazione. Il cattolico Pietro Scoppola nel saggio "25 aprile. Liberazione" (Einaudi), disse che fu un'esperienza vissuta dalla «coralità del popolo italiano». Per Biagi De Felice ebbe ragione. "E' vero, alla Resistenza partecipò una minoranza esigua della popolazione. Ma anche il Risorgimento fu fatto da una minoranza, se ricordo bene. E anche la Marcia su Roma. E anche la Rivoluzione russa: non mi pare che Lenin avesse attorno una grande compagnia".
Negli anni passati una forte dialettica si sviluppò sulla Resistenza come quella tra Giorgio Bocca e Indro Montanelli. Biagi "parteggiò" per Bocca, "per ragioni anagrafiche e perché veniamo tutti e due dal Partito d'azione. E perché tutti e due siamo convinti che per la mia generazione quella scelta sia forse la cosa più importante che abbiamo fatto. Se ricordo le facce di quei ragazzi con cui ho combattuto ...Operai, fornai, contadini... Abbiamo scoperto delle verità e dei valori di cui nessuno ci aveva parlato. Come esame di coscienza non è stato poi così male". Un esame di coscienza che portò molti a scegliere fra due concezioni della vita. "Io ricordo il mio dolore quando i tedeschi entrarono a Parigi - concluse Biagi -. Non sono francese, ma Parigi era tutto quel mondo che avevo conosciuto nei libri e al cinema, e per me era importante".
Per molto tempo non si è potuto dire che in Italia, in quegli anni, ci fu una guerra civile; che ci furono, insomma, anche molti italiani che continuarono a credere nel fascimo. È stato, ancora, Renzo De Felice a rompere il tabù. Come testimonia ancora Arrigo Petacco ne "I ragazzi del '44" (Mondadori) un suo manoscritto, che aveva dispettosamente intitolato "Viva la guerra", era sempre speranzoso di diventare un libro. Soltanto una ventina d'anni dopo si decise di riesumarlo, per così dire, con l'inganno e lo presentò al suo editore ritenendo che ormai i tempi fossero maturi. Ma non era così: il revisionismo storico non andava ancora di moda e la Resistenza continuava ad essere un argomento tabù. "Era infatti ancora politicamente vietato dare a quanto era accaduto in Italia fra il 1943 e il 1945 il nome che gli spettava - affermava Petacco -, il nome cioè di "guerra civile". Definire come tale la Resistenza era giudicato fattualmente falso e ideologicamente sospetto. A parlare e a scrivere di "guerra civile" erano soltanto i reduci di Salò (i cui libri venivano pubblicati alla macchia) o qualche coraggioso giornalista come Indro Montanelli. Il discorso storico ufficiale taceva in proposito, o al massimo, dopo molte riluttanze, arrivava a concedere qualche mezza ammissione. Più in là c'era il divieto del politicamente e dello storiograficamente corretto che comprendeva non soltanto la Resistenza, ma anche tutto quanto di brutto e di sanguinoso era accaduto nei vari "triangoli della morte" dopo il 25 aprile del 1945".
"È chiaro che c'erano degli italiani contro degli altri italiani" chiosava Biagi. "I fascisti erano italiani. Che avevano idee diverse dalle mie: sulla politica, sulla vita... Qualcuno credeva fosse un problema di lealtà: resto fedele al vecchio alleato. Il mio amico Eugenio Facchini, primo federale repubblichino dì Bologna, mi diceva che bisognava entrare dentro il fascismo, per cambiarlo, per cacciare i gerarchi corrotti. Io lo ricordo come una persona perbene, e mi sentirei di giurare sulla sua bontà, sulla sua generosità. La sua morte - fu ammazzato da dei misteriosi partigiani - mi addolorò molto. Ma la parte, per me, era quella sbagliata".
Alla Resistenza è legato l'antifascismo: ma è un valore in sé? E' da ritenere con Biagi che se lo consideriamo non come teoria politica ma come concezione della vita, probabilmente sì. "L'idea di dare la parola anche agli altri... Nel fascismo contava solo la parola del Duce. Che aveva «sempre ragione». Poi s'è visto che era ragionevole avere dei dubbi".
L'antifascismo e lo scontro col fascismo rappresentava il cuore stesso degli eventi che caratterizzavano il periodo, la ragione ideale per la quale si combatteva. Gianni Oliva, altro storico di notevole valore, affermava ne "La resa dei conti" (Mondadori) come dal contesto della guerra civile discende "l'esasperazione della violenza che sempre caratterizza gli scontri interni ad una compagine sociale. Il nemico non è il soldato anonimo che pronuncia parole sconosciute e che dopo la guerra tornerà nella sua terra; all'opposto, è il compagno di scuola di ieri, il vicino di casa, il bottegaio abituale, l'uomo che parla lo stesso linguaggio e che si è formato nella stessa cultura. Il nemico non è un occupante che persegue un progetto di egemonia: ben più sostanzialmente, egli è un traditore, un rinnegato che ha venduto la patria allo straniero, oppure che ha calpestato il proprio onore, in ogni caso un cittadino che ha perso il diritto morale alla cittadinanza. E, ancora, nella guerra civile il nemico non ha la visibilità dell'uniforme: egli può essere chiunque, annidarsi all'interno del proprio reparto o della propria banda, oppure tra la popolazione civile più insospettabile; può essere l'anonimo della «zona grigia», colui che cerca di ritagliarsi uno spazio silenzioso di neutralità in attesa di schierarsi con il vincitore; oppure può essere l'equilibrista del doppio gioco, solidale con gli uni e con gli altri e pronto alla delazione più conveniente".
In quei giorni c'era un'atmosfera di tradimento: la impossibilità di sapere e riconoscere chi fosse il proprio nemico, "la non intelligibilità dell'avversario, l'alone di incertezza che avvolge la linea di demarcazione tra i contendenti", che, secondo Oliva ha posto in uno stato di permanente rabbia, sospetto e paura, a "cui sono legate gran parte delle atrocità e della sovrabbondanza di violenza delle guerre civili. Il nemico interno non deve essere semplicemente sconfitto: deve essere annientato, inseguito se fugge, eliminato fisicamente. I fascisti di Salò sono i primi a darne l'esempio, con l'esemplarità delle condanne, la spettacolarizzazione della morte come mezzo per il controllo delle piazze, l'esposizione dei cadaveri come strumento di deterrenza".
Mario Leone
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