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Latina. Le nuove frontiere dell'informazione. Gianpiero Gamaleri: «All'interno del globalizzazione si sta sviluppando un interesse ai temi locali»

Davanti le Telecamere di ParvapoliS con Gianpiero Gamaleri, già consigliere di amministrazione della RAI nel CDA presieduto da Roberto Zaccaria (1998-2002), ordinario di Elementi di Teoria e tecnica delle Comunicazioni di Massa presso l'Università di Roma Tre, e presso la Scuola di Giornalismo dell'Università LUISS-Guido Carli, nonché giornalista ed autore di numerosi saggi sulle comunicazioni di massa, ed in particolare su Marshall McLuhan. Partiamo dal villaggio globale: lei ritiene sia un villaggio sempre più globale, oppure si sta sviluppando una sorta di "glocalizzazione", dovuta anche - ad esempio - alle tv di quartiere od anche allo stesso Internet, che sta restringendo sempre più il pianeta in cui viviamo e comunichiamo? «Sì, sono tutti e due gli elementi che giocano, infatti è stata coniata questa nuova parola, "glocale" (globale e locale insieme). Direi anzi che quanto più ci si spinge verso la globalizzazione, tanto più si ha un'esigenza di riscoperta delle proprie radici, di cercare di andare a fondo della propria cultura, di cercare di non essere messi di fronte all'invasione, inevitabile, che deriva da un contatto ormai in tempo reale con tutto il mondo. Abbiamo parlato qui di contatti mediatici, cioé di trasmissioni che arrivano da ogni parte della terra ma, a parte questo, ci sono anche ormai trasporti di beni materiali (pensiamo soltanto a quello che significa la produzione cinese), quindi è una vera e propria "implosione", cioé qualcosa che ci arriva addosso, un vero e proprio assedio rispetto al quale dobbiamo attrezzarci, dobbiamo trovare le giuste difese, non difese pessimistiche, ma il rilancio, la riscoperta della propria originalità, della propria creatività». Le nuove tecnologie, penso in particolare all'informatica, alle telecamere digitali, alla stessa rete, non possono portare anche ad uno scambio dei ruoli tra operatori dell'informazione ed opinione pubblica? Mi vengono in mente i blog, ma anche le persone che erano in fila per rendere omaggio alla salma del papa, l'hanno fotografata, mettendo poi in rete le immagini scattate per condividere quella che costituiva in origine un'esperienza personale. Così facendo, da oggetto della notizia, non si sono trasformati in operatori della notizia? «Internet spiazza il concetto di villaggio globale come fosse un demiurgo tipo CNN o tipo "grande fratello" (non quello della trasmissione, ma quello del romanzo "1984" di George Orwell) che governa tutti gli esseri umani attraverso la televisione. Abbiamo anche detto che la televisione è un colosso dai piedi d'argilla perché non è che riesce ad essere persuasiva, riesce a far pensare, a portare certi temi all'evidenza. Poi occorre che ciascuno pensi con la propria testa. Ecco, Internet è una cosa completamente diversa, come i telefoni cellulari: il programma ce lo facciamo noi. Il programma è una serie di segmenti che vanno dentro la rete. L'importante è riuscire ad emergere dentro questa rete, ad essere un pesce protagonista e non un pesce mandato in padella; un pesce che vive, naviga, che ha una buona salute. In questo senso penso che lo spazio di Internet sia uno spazio alternativo molto interessante. Certo, bisogna andare a cercare quelli che sono i percorsi di abitudine dei soggetti. Faccio un esempio: lo smarrimento che prende ogni persona quando si mette davanti a Google. "Adesso cosa domando? Hai otto miliardi di siti a disposizione: adesso cosa scegli?" Di fronte a otto miliardi è più difficile scegliere che non davanti a sette-otto programmi della televisione. Allora, è vero che si è nella rete, ma bisogna anche fare in modo di essere pescati, bisogna fare in modo che ci sia un pubblico disponibile a sceglierci e questo non è facile». Carta stampata, radio, tv, internet, informazioni sui cellulari. Ma tutta questa mole di informazioni che ci raggiunge, è positiva o negativa? «È fondamentalmente un elemento di ricchezza. Non vi è dubbio che, rispetto all'uomo di qualche anno fa, la messe di potenzialità che questo tipo di comunicazione ci offre è enorme. Lo si constata ad esempio anche nelle tesi di laurea che ormai non si possono fare se non attingendo a fonti che sono ricollegabili ad Internet, come siti biblioteco-economici. È ovvio che ci sono i pro e i contro: da una parte questa ricchezza, dall'altra il rischio di fare dei lavori compilativi, di non riflettere a fondo. Forse, alla fine è sempre una sfida educativa. Io non vorrei dire come sempre "tutto spetta alla scuola", però spetta alla formazione in senso lato (che può essere fatta anche attraverso questi media), per cui uno alla fine abbia la consapevolezza di avere delle potenzialità enormi che vanno sfruttate per raggiungere degli obiettivi nobili, degli obiettivi utili». A proposito di formazione: permangono - tra università pubblica ed Ordine dei Giornalisti - delle polemiche, soprattutto sui numeri, per la formazione dei giornalisti e dei comunicatori. Crede che si arriverà ad un'università pubblica che dia il praticantato? «Ci sono in corso delle richieste. Non vorrei sbagliare, ma mi sembra che a Milano l'Ordine dei Giornalisti - presieduto da Abruzzo - abbia dei rapporti con l'università Statale. Ma non vorrei fare delle differenze tra università pubblica e privata: bisogna che anche qui ci sia un sistema misto, pubblico e privato assieme, e che i percorsi siano tali da poter fare emergere i migliori talenti». Una battuta finale: in Italia ci sono più giornalisti che vogliono fare i politici o più politici che vogliono influenzare la comunicazione? «Io penso che siano più i politici che vogliono influenzare la comunicazione: i giornalisti che vanno a fare i politici scelgono tutto sommato un mestiere abbastanza scomodo e prendono qualche rischio in più rispetto a quello di stare dietro al video».

Andrea Apruzzese

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