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Latina. Il no francese all'UE. Domenico Cambareri: «Una fermata alla stazione di servizio per cambiare una ruota bucata. E qualcosa di più»

La clamorosa affermazione del no nel referendum francese ha provocato e sta provocando uno sconquasso soprattutto emotivo. La feroce analisi di André Glucksmann è esempio immediato e calzante. Il fronte del no ancora gongola e gongolerà per giorni di incontenibile gioia. È difficile però poterne interpretare i motivi. Per quanto esso abbia unito, è anche vero che è un semplice collante delle condizioni, delle motivazioni, delle strumentalizzazioni, delle finalità assolutamente eterogenee e fra esse diverse, in contrasto, spesso contraddittorie e opposte. È anche vero che la storia delle istituzioni europee, non priva di circoscritti fallimenti, è stata fatta attraverso sentieri e vie aperti man mano, accidentati e in più occasioni rimasti bloccati, per fortuna per non lungo tempo. Basti rivedere le date di questi processi, ad iniziare dalla ratifica della CED, la Comunità europea di difesa. Basti rivedere il ruolo spesso fra l’ipercritico e il superiore svolto dalla Francia. Basti vedere il ruolo di piccoli sabotatori svolti da Irlanda e Danimarca. O quello cinicamente e cronicamente euro-scettico svolto dal Regno Unito. O i limiti politici e geografici del processo dell’unificazione nel Nord Europa, che non include ad esempio la Norvegia. Sono cose che gli insegnanti di storia e di educazione civica dicono agli studenti e che fanno parte della cultura e della coscienza comune degli europei che vivono non smemorati. Se è difficile interpretare il senso del no, è necessario però capire in che misura in esso hanno agito - senza per questo volere ridurre l’impatto prodotto e le conseguenze a breve termine che sul piano politico si stanno producendo e si produrranno - i maggiori fra i fattori espressi dal fronte del no. Non desidero farne un’elencazione più o meno soggettiva e non penso di produrre una disamina dietrologica. È però già sin dalle prime ore assodato il fatto che il referendum sia stato utilizzato da una parte dell’elettorato in maniera assolutamente impropria, cioè come strumento "elettorale" per bocciare il governo in carica. È anche apertamente assodato che una percentuale eleva di socialisti francesi, qui definibili "socialisti scissionisti", abbia utilizzato il referendum come strumento per fini di cinica demagogia con Fabius che ha concorso a togliere il primato all’estrema destra di Le Pen e di Pasqua. È apertamente riconosciuto che l’estrema sinistra ha utilizzato un linguaggio, assieme ai socialisti, rozzo e fazioso, espressione di una selvaggia ripulsa versi gli emigranti dell’est europeo. È non di meno ampiamente riconosciuto il ruolo svolto dallo sciovinismo in tutte queste diverse problematiche, quanto in quello caratterialmente proprio, di un ostinato chiuso e inconcludente nazionalismo. In particolare nel tema "scottante" che riguarda il futuro ingresso della Turchia.
Ma vi sono altri tre motivi di non minore importanza. Il primo, un errore di prospettiva che si è tramutato in un disastro di strategia politica, è quello dell’ambizione di Chirac. Il presidente francese ha voluto il referendum, con potere abrogativo e non consultivo, per conseguire, con l’eventuale vittoria dl sì una contestuale vittoria personale in funzione della sua ricandidatura all’Eliseo. Nell’azzardo, il gioco non è valso assolutamente la posta. Per di più. Chirac doveva essere avvisato dalla sua stessa esperienza che era già caduto in previsioni e decisioni errate che lo avevano portato ad incassare sonore sconfitte. Il secondo, su cui mi sembra che non si sono soffermano politici, analisti, uomini di cultura e giornalisti, è l’utilizzazione assolutamente impropria e generalizzata quanto enfatica che abbia fatto tutti in Europa del termine "Costituzione" anziché di quello corretto di "Convenzione". Non è una quisquilia ma un elevatissimo concentrato al plastico, che, come il materiale per i giochi artistici dei ragazzi, si è trasformato in un’esplosione immane. Esso, appunto, come la creta e la plastichina, non è stato utilizzato per sigillare le guarnizioni ma per moltiplicare i basamenti le arcate e i tralicci da far esplodere. E, come dell’ottimo vino rosso o del forte brandy francesi, per rinfocolare le passioni e non sopire mai la lotta e la rabbia. Il terzo, l’utilizzazione operata a più non posso dalla cinica politica vaticana e filo-clericale italiana (con le code polacca, austriaca e irlandese) delle "radici ebraico-cristiane". Tanto che anche in Francia, sulla pessima falsariga dell’Italia, uomini politici di primo piano che ambiscono alla successione a Chirac (nel caso esatto il maggiore esponente del partito UMP e ministro dell’interno Sarkozy), hanno già da tempo operato un’inversione di marcia accostandosi ai lidi di un aperto clericalismo politico nella laicissima tradizione politica e parlamentare d’Oltralpe. Per fortuna, per quanto Raffarin è uscito dimissionato dalla sconfitta referendaria, il neo presidente del consiglio Dominique De Villepin e il ministro della difesa, una donna, Michele Alliot-Marie dovrebbero rendergli la vita dura. Non si tratta ancora di sottovalutare la portata dei danni che il no francese provocherà all’avanzamento del processo unitario. Sia perché potrà influenzare la tornata referendaria olandese (anche se c’è chi pensa che gli olandesi, punti nel vivo per la perdita di un primo, originale e forse esclusivo "no" tra i Paesi fondatori dell’Europa comunitaria, potrebbero adesso votare in maggioranza per il sì), sia perché il Paese che guiderà per il prossimo semestre l’Unione Europea sarà il Regno Unito. E se Blair ha sempre espresso opinioni pro-europeiste, con l’aria che tira oltre Manica (dove la sua maggioranza è stata fortemente ridimensionata), e con gli avvenimenti francesi, non potrà che navigare al largo e rinviare sine die il referendum inglese. Giscard D’Estaing, il padre della Convenzione, un francese, è stato con Chirac il più colpito della disfatta subita. Ma da buon incassatore e da ottimo politico realista, ha già espresso il giudizio - per la verità espresso in maniera quasi plebiscitaria anche dai nostri esponenti politici, una volta tanto, ad eccezione dell’estrema sinistra e dei leghisti - che il processo dell’approvazione e della ratifica della Convenzione deve andare avanti. Tano più che esso è gia stato ratificato da nove Nazioni, compresa l’Italia, Paese co-fondatore. In verità, non tutto accade senza motivo e non tutto risulta da un eccesso di esasperazione o di ricezione superficiale dell’informazione. È un dato di fatto che la Convenzione, da fonte normativa sintetica e agile, è stata trasformata per le pressioni e gli egoismi dei governi e delle lobby più diverse in un ponderoso mostro tecno-giuridico. E se è anche un dato di fatto che il processo unitario è stato espressione non solo di un dirigismo burocratico e politico accentuato ma anche, con controprove incrociate, di processi di condivisione e accettazione ultra democratiche, ciò ha generato da un lato l’irresponsabile prolungamento al "biennio di passaggio 2012-2014" del seggio permanente per ogni Paese nella Commissione europea. Inoltre, in barba e al tempo stesso con l’esasperazione del principio della fraternità, adesso gabbata dagli stessi francesi, si è proceduto ad un "assemblaggio" dei "pezzi" e dei "pezzettini" dell’Europa, con complicazioni burocratiche, procedurali e linguistiche e con costi enormi. Pensiamo al caso di Malta, arcipelago che poteva - attraverso accordi non complessi - tornare alla Madrepatria Italia. O alla Slovenia, che avrebbe potuto accedere - quale eresia! - tramite un patto federativo con l’Austria, o ai tre piccoli Paesi Baltici - Lettonia, Estonia e Lituania -, che avrebbero potuto accedere come una singole entità previa loro federazione. Glucksmann, in risposta alla miopia e alle paure dei suoi connazionali, ha messo in evidenza come siano oggi i popoli orientali, i popoli slavi, a rappresentare l’elemento dinamico, la forza ideale e di fede liberatasi dall’oppressione comunista, non solo per se stessi ma anche per tutta l’Europa di oggi. Ciò non toglie che le osservazioni qui mosse non perdono di significato e che io non voglio fare delle forzature grossolane, quanto indicare delle vie, delle direzioni che si sarebbe potuto seguire e che in futuro (senza qui ingarbugliare troppo le cose) si potrebbe tentare di recuperare. Il principio di identità di un popolo non può distruggere il principio di una coesa federazione fra piccoli e contigui popoli non divisi dall’appartenenza etnica e dalla famiglia linguistica. E non avrebbe fatto altro che esemplificare le cose nel passaggio dell’Europa da 15 a 25. La cosa vale anche Cipro, anche qui senza cadere in un’esemplificazione, anzi in un’esemplificazione davvero eccessiva: Cipro e la Madrepatria Ellade. Si dirà: «Come, è da qualche anno appena che la Cecoslovacchia si è divisa in due diverse entità statali indipendenti, e qui si propone la fantapolitica per i Paesi Baltici e per Malta!». Eppure, le linee mediane e forse le linee aggreganti del futuro, potranno dare più che ragione a quanto dico e a quanto di processo esemplificativo avremmo avuto e potremmo avere per l’unificazione europea.
Torniamo alla Francia, all’estrema sinistra e all’estrema destra, alla de-localizzaizone industriale, all’immigrazione polacca, al ruolo di potenza centrale dell’asse comunitario Parigi-Berlino e al suo ampliamento geo-politico con Mosca. I francesi qui hanno capito poco e confusamente, poiché l’allargamento a 25, per quanto troppo veloce e repentino, aveva obiettivamente anche dell’improrogabile. Innanzitutto, sventare il pericolo che una parte di questi Paesi si legasse a doppio filo con gli USA, con il nostro alleato con il quale non tutto collima al meglio. Come stava accadendo per la Polonia e come sta accadendo per qualche Stato ex sovietico. Inoltre, non è vero che questi Paesi non consentano condizioni di espansioni finanziarie e industriali per gli europei occidentali, francesi in testa. Essi, anzi, per noi rappresentano più che una riserva strategica nel gioco complessivo che si svolge a livello planetario con USA, Giappone, Cina e India. Infine, la Turchia. Anche qui i politici e gli uomini di cultura e i giornalisti francesi, per quanto in stragrande maggioranza favorevoli all’Unione Europea allargata, hanno svolto un ruolo inadeguato o controproducente. Il loro no alla Turchia ha prodotto una sinergica moltiplicazione dei no. Ma i francesi, oltre a dimenticare ancora una volta la fraternità, hanno dimenticato molte cose. Innanzitutto, che i turchi costituiscono dopo cinque secoli sì ancora l’espressione dell’egemonia etnica ma non la maggioranza etnica. Non l’hanno mai rappresentata. All’Asia anteriore siamo legati davvero per gran parte delle radici da millenni. Inoltre, la Turchia, per quanto Paese quasi totalmente islamico, è il primo di tutto il mondo islamico che fece tesoro dei valori della Rivoluzione francese (e dei suoi eccessi), diventando nel secondo decennio del ‘900 il primo Stato laico in tutto il mondo islamico e adottando la scrittura latina e modelli di vita per quanto limitati ad una parte contenuta della popolazione che l’hanno avvicinata sempre più all’Europa, anche se permangono i gravi contenziosi con la Grecia in tante parti dell’Egeo e a Cipro. Ma bisogna facilitare l’evoluzione della presa di coscienza turca e bisogna contribuire nel modificare la sua "percezione" ancora fortemente etnica. La Turchia, per noi, rappresenta una condizione esclusiva per il nostro diretto raccordo con l’Asia centrale e con il Vicino e Medio Oriente. I francesi hanno inoltre dimenticato e dimenticano che già dalle lotte contro l’imperatore Carlo V i loro sovrani si allearono con l’ "infedele" sultano e non parteciparono alla battaglia di Lepanto. E che ancora Napoleone, per quanto invase l’Egitto, ebbe rapporti diplomatici strettissimi con Istambul, anche grazie ad una cugina della moglie, catturata per mare e finita nell’harem del Sultano. E che ancora i francesi furono legati da interessi economici e non solo di incontri e scontri politici e strategici e di intensi rapporti culturali, con l’impero ottomano e con la Turchia. Poco importano le più recenti alleanze fra Istambul e gli imperi centrali. Anche in tutto questo è dunque bene che la "percezione" sia nazionalistica che operaia francese, dei politici degli uomini di cultura e dei cittadini comuni, cambi. E cambi rapidamente, perché l’Europa è inimmaginabile senza i Paesi fondatori e la Francia è inimmaginabile senza l’Europa unita. La Francia non è la Svizzera, Parigi non è Ginevra. Pertanto, il ritornare agli accordi di Nizza, non dovrà essere visto che come una fermata alla stazione di servizio, per cambiare una ruota bucata e anche qualcosa di più.

Domenico Cambareri


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