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Latina. Le nuove strategie del terrorismo. Daniele Capezzone: «C'è una formula per uscire da questa spirale. In tre parti...»
In tanti hanno cercato e sperato di espungere il "punto terrorismo" dall'agenda politica
globale, ma la polvere e il sangue causati da Al Qaeda a Londra hanno provveduto a
riproporre di prepotenza la questione. Scrive su Notizie Radicali Daniene Capezzone:
«Da parte mia, insieme ad ancora troppo pochi, torno a dire che occorre prepararsi a nuovi
incubi, che sarebbe irresponsabile rimuovere dall'area non solo del "possibile" ma dell'ormai
tragicamente "probabile": mi riferisco all'uso (magari proprio rispetto a stazioni ferroviarie
o della metropolitana, o ad altri luoghi destinati a forti concentrazioni di persone) di gas
o di altre forme di attacco per via chimica e/o batteriologica. A puro titolo di esempio, ricordo che tre grammi (ripeto: tre grammi) di antrace sono in grado di uccidere mille persone, e che nel mondo si stima l'esistenza di 50mila tonnellate di sostenze come quella. Nelle mani di chi? Di quali terroristi, o (anche) di quali Stati fiancheggiatori del terrorismo?
Dinanzi a un simile scenario, che anticipa un tempo segnato dalla cifra dell'oscuro e dell'imperscrutabile, appaiono poco convincenti troppe delle cose che stiamo leggendo ed ascoltando.
Da una parte, non persuade il ricorso prevedibile e scontato ai soliti argomenti anti-Coalition of the willing. Chi si abbandona a queste cantilene sembra dimenticare che l'11 settembre è venuto prima delle "guerre preventive" (che, dunque, non possono essere accusate di aver "causato" il fenomeno: eppure si sente anche questo...); e, allo stesso modo, dimentica che oggi viene colpito Tony Blair, cioè proprio il leader che più di altri si era e si è distinto per aver costruito un'agenda non militare o militarista, e invece in larghissima misura centrata -oltre che sulla promozione globale della democrazia- sull'aiuto ai più poveri e su un approccio "multilateralista" e "progressista". Insomma, chi pensa che la guerra jihadista distingua tra "occidentali cattivi" e "occidentali buoni" si sbaglia di grosso, e rischia di dover fare i conti, prima o poi, su un risveglio assai brusco.
Dall'altra parte, però, anche gli amici della "Coalition of the willing" devono fare i conti con una realtà difficilmente contestabile: la strategia militare di contrasto al terrorismo non basta, e di per sé non funziona. Marco Pannella, Emma Bonino e i radicali hanno buon gioco a ricordare il carattere alternativo della proposta "Iraq libero", ma, anche al di là di questo fatto pur essenziale, resta incomprensibile il fatto che in Iraq i processi stentino ad iniziare, che non siano stati ancora aperti gli archivi del partito Baath, e che -in buona sostanza- si sia stati così poco capaci di rivolgersi davvero agli "hearts and minds" di coloro a cui -pure- si restituivano beni essenziali come la libertà e la democrazia.
Continuo a pensare che le carte più affidabili (certo, di medio periodo; certo, non miracolistiche) siano i tre punti della strategia radicale.
In primo luogo, "basta soldi ai dittatori": sia il condono dei debiti sia gli accordi di cooperazione devono essere indissolubilmente legati agli effettivi progressi democratici dei beneficiari. In caso contrario, ogni euro ed ogni dollaro saranno stati spesi male, e continueranno a far crescere il seme del male che vorremmo invece estirpare.
In secondo luogo, occorre investire in quelle che da tempo chiamiamo le nuove "Radio Londra".
Contro la tragedia di uomini e donne allevati per dare la morte a se stessi e agli altri,
occorre la "semina" di radio, di telvisioni, di media che servano a dare la parola ai
democratici, alle ragioni della libertà. Le esperienze già esistenti nel mondo arabo vanno potenziate e rilanciate, anche con appositi stanziamenti: è possibile rivedere i bilanci della difesa, e ogni somma di denaro a ciò destinata potrebbe produrre effetti straordinariamente positivi.
Infine, occorre che l'opera di promozione globale della libertà e della democrazia ritrovi un suo filo anche istituzionale. In questo senso, il progetto della "Community of democracies", cioè il tentativo di far lavorare insieme (dentro e fuori le Nazioni Unite) le democrazie, possa essere un potente incoraggiamento per tanti. Finora, nelle sedi internazionali, le dittature hanno saputo "lavorare insieme": è gran tempo che lo facciano gli Stati liberi e democratici, esercitando -se ne sono capaci- una forza di attrazione nella direzione giusta.
Nessuna di queste tre misure avrà o avrebbe effetti istantanei: ma guai a noi se non le adottassimo».
Elisabetta Rizzo
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