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Roma. L'addio all'antropologa Cecilia Gatto Trocchi. Il ricordo: «Era clericale e papalina ma il suo rigore scientifico noto in tutto il mondo»
Ho avuto occasione di conoscere Cecila Gatto Trocchi anni addietro, in occasione della consegna Premio Capo Circeo che le era stato attribuito. L’ho rivista l’ultima volta il sette maggio del 2003, in occasione di una cena “riservatissima” in onore di Ernst Nolte e di sua moglie. L’insigne storico tedesco era a Roma in qualità di ospite del presidente del Senato della Repubblica e il giorno prima aveva tenuto una magistrale lectio ad un pubblico autorevole nell’aula del Senato, scandalosamente interrotto dal mini-leader repubblicano (per eredità monarchica) La Malfa, il quale aveva dato purtroppo fiato a qualche gruppuscolo di estremisti all’interno della comunità israelitica. Alla cena, organizzata dal segretario per l’amicizia italo-germanica, dr. Gino Ragno, eravamo presenti soltanto Cecilia, io con mia moglie, Gennaro Malgieri e un’altra coppia di amici. Cecilia era stata come sempre simpatica, mordente e briosa nelle sue battute. All’uscita dal ristorante ebbe ad indicarmi l’automobile, che diceva che utilizzava sempre il figlio. Il mezzo presentava già qualche ammaccatura. Da lì a non molto tempo dopo, la scomparsa del figlio su quell’automobile e l’inizio del trauma dal quale non si sarebbe più ripresa. Da quel momento, anche per tutta una serie di motivi relativi a mie vicende, ho avuto solo pochi contatti con Cecilia. Seppi della morte del figlio addirittura molti mesi dopo, e, quando la chiamai, mi esternò il più grande e vivo disappunto sul come non mi fossi fatto vivo. Con mia moglie eravamo davvero esterrefatti, poiché, riflettendo sul contenuto della conversazione telefonica, si capiva - e lei lo voleva far capire – che era entrata in una condizione di prostrazione di fronte a cui amici distanti e di non assidua frequentazione nulla potevano. Ho avuto ulteriori e più recenti occasioni di parlare sempre per telefono con lei, anche per quanto stava facendo per la Fondazione intitolata al figlio che era stato un grande appassionato di fumetti. Dei tentativi più recenti di contatto andati a vuoto, mi avevano in fin dei conti rassicurato anche perché sapevo che era sempre più impegnata, non soltanto con l’università e i media televisivi.
Cecilia era stata ospite in più occasioni a Roma di convegni organizzati da me e da altri amici. Non si era mai tirata indietro davanti ad alcun invito, salvo fare il possibile quando l’orario di una data era prossimo con quello di un altro impegno già preso.
Nei suoi studi, aveva affrontato con sempre maggiore esperienza e capacità di
smascheramento molto fenomeni dell’ “occulto” e del miracolistico. Fornita di un’ottima
preparazione e di forti motivazioni religiose, era un’intellettuale che sapeva sapere
distinte la pur pervadente fede cattolica (la chiamavo, scherzosamente e non solo, clericale,
semi-integralista e papalina) e la ricerca scientifica. Uno dei miei ultimi e sempre più
rari articoli passati al Secolo d’Italia (sul quale dopo le tante svolte di Fini ho preferito
non scrivere più), era un’attenta recensione della nuova edizione del bel libro “Storia
esoterica d’Italia”. Da arcicattolica, Cecilia, all’inizio della nostra conoscenza, era partita con la lancia tesa contro la Massoneria tout court. Dopo, per quanto nella brevità e saltuarietà dei colloqui, aveva sicuramente smussato e addolcito la sua posizione anche su aspetti delicati. D’altronde, in termini terra terra, su un punto che le stava a cuore, io non avevo mai disconosciuto all’apparato e alla gerarchia cattolica l’esigenza di garantirsi forme di sicura autonomia materiale ed economica. Ma non certo quella di gravare oltre l’otto per mille in altri mille modi sullo Stato e sulla società italiana. Il suo rammarico più grande era stato sino al 2003 quello di non essere approdata in un’ateneo romano (al che io rispondevo: pensa che io ho addirittura rinunciato ad entrare in un’ateneo, o a tentare, visto che la quasi totalità delle discipline è sotto precise egemonie), a causa della sua implacabile lotta alle interpretazioni “demo-etno-antropologiche” che dominavano e dominano in Italia. Quelle di diretta derivazioni del “mostro sacro” (lo chiamano ancora così molti dei sui fidi seguaci)
Ernesto De Martino, che legò strettamente questa disciplina al carro dell’ideologia marxista.
Quel De Martino che ormai molti decenni addietro fece perdere le tracce del Macchioro… (le
cose ci porterebbero lontano, e quanto so nel merito lo devo proprio a Cecilia).
Come studiosa e amica scanzonata, ti ricorderò sempre con gli altri amici che hanno
condiviso la tua conoscenza, l’immediatezza del tuo carattere e dei tuoi moti d’animo,
il tuo altruismo. Come amico che non crede nel giudizio universale, posso continuare a bisticciare con te, sicuro che le cose sono molto diverse. Ma le tue e le mie idee hanno il loro contrario in quelle degli ateo-materialisti. D’altronde, oggi sei tu in vantaggio. Non solo Buddha o Cristo bramava la morte. La bramavano anche Pitagora, Socrate e Platone. Tu l’hai raggiunta, anche se con tremendo e doloroso atto che nessun buon Dio può considerare irreparabile in eterno. Per vie inesplorabili ma immensamente percepite come vere, dunque, ti saluto con un arrivederci. Per quanto di sacro hai trovato e creduto di scoprire in tutti quegli atti e in tutte quelle fenomenologie del religioso che per fortuna sfuggono ai fenomeni da baracconi di ieri, di oggi e di domani, che hai saputo così esemplarmente mettere a nudo e denunciare. E nel segno di ciò che unisce oltre le fedi, che riporta all’inconosciuto Principio.
Domenico Cambareri
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