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San Felice. Vincere la paura. Magdi Allam: «Il pacifismo e la stampa italiana rischiano di fare il gioco dei miliardari della morte e del terrore»

Davanti le Telecamere di ParvapoliS Magdi Allam. Per la prima volta Magdi Allam in "Vincere la paura" (Mondadori) racconta se stesso, musulmano laico nato e cresciuto nell'Egitto di Nasser ed emigrato in Italia nel 1972: "Partendo dal mio vissuto posso testimoniare che soltanto quarant'anni fa la situazione in Medio Oriente era radicalmente diversa. La società e le istituzioni erano laiche. La cultura dell'odio e della morte, che l'Occidente oggi associa ai musulmani, non è nel Dna dell'islam". Allam, in questo libro, ha deciso di togliersi tutti i "sassolini", denunciando apertamente sia gli integralisti che l'hanno condannato come "nemico dell'islam", sia i loro complici occidentali che alimentano uno scenario di scontro e di odio. Una testimonianza forte, sofferta, estrema. «Ho voluto analizzare le radici della paura che oggi è il sentimento più diffuso. Una paura che, come recita il sottotitolo del mio libro, è causata dall'integralismo dell'Islam e dall'incoscienza dell'Occidente. Ho raccontato esperienze di vita nei primi vent'anni in Egitto, e di questi ultimi due anni in Italia che mi vedono costretto a vivere sotto scorta». Lei sottolinea la differenza tra ingenuità dell'occidente e l'aggressività dell'islam... «L'occidente si è fatto trasformare in un territorio di cultura, è una fabbrica di kamikaze. Londra è un segnale inquietante. Oggi l'Europa deve recuperare la propria identità e i propri valori, e deve affermare il valore della legalità». Il terrorismo è una involuzione delle ideologie, lei dice... «Nel mio libro racconto come negli anni 50 ci fossero nei paesi arabi realtà laiche che si ispiravano a modelli europei e americani. Solo in seguito è iniziato questo processo sul piano delle ideologie, qualche volta di pari passo ad una crisi economica e che ha portato ad un integralismo via via sempre più forte che ha avvelenato quei paesi con il clima più oppressivo, con una visione del mondo manichea che divide le genti in musulmani ed infedeli. È in questo clima che nasce il terrorismo che ha una natura, attenzione, "aggressiva", non "reattiva". I kamikaze non si fanno esplodere per reazione a delle colpe occidentali, qualche lettura ingenua vorrebbe addirittura che il terrorismo sia una forma di protesta estrema per un colonialismo politico e culturale, occidentale, americano, israeliano. Non è così. L'Occidente, l'America, Israele non hanno colpe». Un terrorismo più politico che religioso... «Diciamo meglio: è un potere che ambisce al controllo politico ed economico, strumentalizzando la religione. L'islam, così come il cristianesimo, non è qualcosa di monolitico e compatto. Ha mille anime. Così come ci sono i cattolici, i protestanti, gli ortodossi, così c'è una pluralità all'interno dell'Islam. Sono le interpretazioni estremiste quelle pericolose in un contesto in cui i burattinai del terrore non sono dei poveri morti di fame ma dei ricchissimi miliardari che mirano alla conquista del potere». Ma secondo lei dopo America, Spagna, Inghilterra perché colpire l'Egitto? «Al suo interno esistono fermenti forti di innovazione e laicità. Ma la troppa tolleranza, ripeto, ha finito per servire a creare una rete di protezione, coordinamento, indottrinamento, con proselitismo e arruolamento. Noi siamo passati da dei terroristi suicidi arabi a dei terroristi suicidi arabi ma con passaporto europeo». A livello internazionale le prime pagine sono dedicate ad Israele e ai palestinesi. Studiosi ed analisti hanno sempre specificato che non è corretto mettere sullo stesso piano le due realtà. Da una parte abbiamo uno stato democratico che si difende, dall'altro un terrorismo, quello palestinese, che sfugge ad autorità e controlli. Ora Sharon fa addirittura un passo indietro e concede la striscia di Gaza; sono sempre gli ebrei a fare passi concreti per i processi di pace, dicono gli israeliani. Lei come giudica la cosa? Come valuta questa difficile decisione? «È una decisione politica estremamente coraggiosa, saggia, lungimirante. Una decisione sofferta che auspico possa essere raccolta dalla leadership palestinese come un segnale forte della volontà israeliana di fare passi seri e concreti. Bisogna andare avanti su questa strada ed impedire che gli estremisti islamici e palestinesi possano bloccare questo processo. Io non vedo alternative alla convivenza. Convivenza che Israele vuole. Ma che tantissimi palestinesi, e non solo Hamas, non vogliono. Ricordiamo che nei disegni di molti siti internet palestinesi c'è la distruzione dello stato sionista. Quindi, sì, non bisogna confondere i due piani». Come combattere il terrorismo? «Va colpito nella sua manifestazione di superficie. Contemporaneamente bisogna smantellare l'indottrinamento e il lavaggio del cervello, quello che io chiamo la fabbrica di kamikaze. Quindi assicurarsi che tutti i luoghi di culto islamici rispondano pienamente alle leggi dello stato e facciano propri i valori fondanti delle società europee. Infine avviare una seria politica di integrazione». Nel suo libro lei parla anche della stampa. Lei è vicedirettore ad personam del Corriere della Sera. Lei dice che la stampa italiana non ha molta rispettabilità all'estero. I paesi arabi la utilizzano nei momenti critici... «Da parte della stampa italiana c'è una superficialità nel rapportarsi a questa complessa problematica. Alcune vicende sono state trattate in modo fazioso ed ideologico. Pensiamo all'Iraq. In quell'occasione è emerso in alcuni ambienti dell'estrema sinistra l'antiamericanismo più becero. E la stampa ha dato un grandissimo risalto a questa confusione, con grande assenza di professionalità. Si è parlato addirittura di "invasione" americana. Ecco, soprattutto i giornalisti dovrebbero stare attenti, dovrebbero avere la consapevolezza che le parole che vengono usate sono parole che pesano, che lasciano il segno. Dobbiamo essere estremamente responsabili in quello che diciamo, con l'umiltà di conoscere e la serietà di trasmettere contenuti che corrispondono al vero e al traguardo che una civiltà si propone: costruire qualcosa. In assenza di questo senso etico noi rischiamo di fare il gioco, dando voce ad improbabili e retorici "pacifismi" strumentalizzati politicamente, di quanti minacciano la nostra vita, la nostra sicurezza, la nostra civiltà»

Elisabetta Rizzo

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