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Latina. La missione dell'inviato di guerra. Franco Di Mare: «La cultura è il filtro fondamentale per cercare di capire cosa ci accade intorno»

Davanti le Telecamere di ParvapoliS con Franco Di Mare, giornalista e inviato di guerra del TG1 della Rai, in occasione della presentazione di "Una storia da lontano", lo spettacolo teatrale che lo vedrà protagonista, con la testimonianza delle sue esperienze in zone di conflitti, in scena dal 21 al 23 febbraio al "D'Annunzio" di Latina nell'ambito del Progetto Obolon, dedicato agli studenti degli istituti superiori della provincia di Latina. Di Mare, chi è oggi l'inviato di guerra? «Un testimone, uno che deve riscoprire il valore della testimonianza. L'inviato di guerra non è uno che sta sul tetto dell'albergo: è quello che va in giro, nei luoghi della sofferenza, per testimoniare i fatti che accadono, il dolore della gente, i crateri delle esplosioni mostrati lì mentre accade la storia. È ovvio che tutto questo comporti dei rischi, e infatti purtroppo oggi gli inviati di guerra costituiscono uno dei primi bersagli delle milizie e degli eserciti perché, come testimoni, scoperchiano tanti "altarini", raccontano tante storie e molto spesso il loro è un ruolo scomodo, che viene appunto colpito». Oltre ai rischi fisici (in questi ultimi vent'anni c'è stata un'escalation nel numero degli inviati di guerra, purtroppo anche italiani, caduti sul campo), esistono anche degli altri tipi di rischio, ovvero un rischio di disinformazione, ad esempio quando un comando militare vuole darti solamente un certo tipo di notizie? «È una frase fatta, però è molto vera: si dice che la prima vittima in guerra sia la verità. Per questo dico che il valore dell'inviato è quello di testimone: se si limitasse a raccontare quello che vede, avrebbe già compiuto un balzo in avanti verso la costruzione del mosaico della verità. Io contribuisco portando il mio tassellino, non ho la pretesa di raccontare tutta la guerra, racconto il fatto che ho visto, e racconto quello che ho visto e basta. Se mi limito a quello, ho già compiuto - e bene - il mio dovere. È ovvio che c'è qualcuno che può manipolare quello che io faccio, ma una volta verificate le fonti, una volta accertata la veridicità di quello che racconto, una volta che ho visto ciò che ho visto, e raccontatolo con coscienza, io credo di avere fatto il mio dovere». Queste notizie naturalmente aiutano le popolazioni mondiali a comprendere la guerra, ma possono anche aiutare le popolazioni civili che la guerra la subiscono, ad esempio gli afgani o gli iracheni? «Io mi auguro di si. Ho avuto a lungo la pretesa intellettuale che questo fosse un lavoro che in qualche modo mobilitasse le coscienze e servisse a compiere gesti e cose, che muovesse i fatti. Spesso sono stato preso dallo sconforto: sono stato quasi tre anni a Sarajevo e ho visto devastazioni enormi, anche in Africa e in tanti altri luoghi del mondo, e a volte viene lo scoramento e pensi "A che serve il mio lavoro se non riesco a salvare neanche una vita umana?". Invece poi ti accorgi che non è così, che il mio lavoro, insieme a quello di un altro inviato, insieme a quello di un altro e così via, contribuisce alla formazione di una coscienza pubblica, contribuisce a muovere gli animi e a volte, addirittura, costringe i governi ad intervenire». L'escalation nel numero delle vittime tra gli inviati di guerra è dovuta anche al fatto che è mutato il giornalismo, ovvero servono sempre più immagini ed è quindi sempre più necessario essere in prima linea? «È dovuto al fatto che dobbiamo essere sempre più in prima linea, ed è dovuto al fatto che esiste un numero sempre maggiore di free-lance. Il free-lance è il giornalista che non appartiene a una struttura stabile, ma che vende le immagini che riesce a produrre. Dunque per venderle deve spingere un po' più in avanti la sua zona di operatività e quindi ovviamente, purtroppo, anche il rischio. Infatti, spesso i primi a morire». I giovani che vogliono fare i giornalisti indubbiamente subiscono il "fascino" della figura dell'inviato di guerra. Tanti giovani studiano Scienze della Comunicazione: secondo te esiste realmente questo fascino e quale consiglio potresti dare a un giovane giornalista che magari ha questa specializzazione in mente? «Studiare, studiare, studiare. Io credo che la cultura sia il filtro fondamentale per cercare di capire quello che accade intorno. Non basta semplicemente testimoniare: un fatto può avere una sua interpretazione, dipende dal lato da cui lo guardi. Se tu riesci a capire anche perché quel fatto avviene, allora, forse, hai trovato la chiave del problema. Ma per capire quello, devi studiare. Quindi io credo che la chiave di tutto sia la cultura, sia l'approfondimento». Come conciliare una simile professione, anzi, una simile missione, con il fatto magari di avere anche una famiglia? «Hai fatto la domanda chiave: mia moglie non apprezzava tantissimo, mia figlia ancora meno. Io sminuivo il valore "eroico" (tra mille virgolette) del mio lavoro: dicevo che era tutto tranquillo, che era tutto sereno: telefonavo, quando potevo, ogni sera, abbassando il tono della voce, spiegando che era tutto tranquillo, che eravamo in una zona pacifica, anche se le immagini poi smentivano spesso quello che io dicevo. Diciamo che l'inviato è uno che deve avere una famiglia molto paziente... e spesso la perde!». Un episodio che ti è rimasto particolarmente impresso di questi anni di carriera? «Il volto di un bambino nell'orfanotrofio di Kabul, dove vi erano 1200 bambini. Questo bambino stava mangiando, noi ci siamo avvicinati con la telecamera, una telecamera grossa, invadente, che quel bambino non aveva mai visto. Il bambino continuò a mangiare fissando un punto nel vuoto: era con la testa da un'altra parte. Nessuno di noi sarebbe riuscito a stare accanto alla telecamera senza guardare l'obiettivo, ma lui non lo guardava, perché era altrove, era da un'altra parte». Franco Di Mare è giornalista Rai dal 1991 e da venti anni è inviato in aree di crisi: negli anni '90 ha seguito i conflitti nelle aree dell'ex Jugoslavia, in Bosnia, Croazia e Kosovo; in Africa, dove ha testimoniato degli spaventosi scontri interetnici tra Hutu e Tutsi. Nel corso degli anni ha seguito anche falliti colpi di Stato in America Latina e disastri naturali come l'uragano Mitch che devastò Honduras, Guatemala e Nicaragua. Negli anni più recenti ha seguito la guerra in Afghanistan e in Iraq (la prima del 1991 e la seconda, del 2003), la guerra tra Etiopia ed Eritrea e quella a Timor Est. È autore di numerose inchieste giornalistiche sulla mafia dell'Europa dell'Est, e sul terrorismo in Giappone, Russia, Medio Oriente, Africa Orientale. Ha seguito le elezioni presidenziali in diverse nazioni, come gli Stati Uniti d'America e la Francia, la Bulgaria e l'Algeria. Dopo tanti anni come inviato di guerra, e numerosi premi e riconoscimenti ottenuti per la qualità dei suoi reportage ed inchieste, dal 2003 ha iniziato la sua carriera come conduttore (su RaiUno) con UnoMattina Estate, esperienza proseguita con UnoMattina Week End. Dalla scorsa stagione televisiva, infine, approda alla conduzione di UnoMattina 2004-2005.

Andrea Apruzzese

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