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Latina. Vaticano, vaticanisti e l'ambiguo concetto cattolico di laicità. Fabio Zavattaro: «Non è facile raccontare certe cose nel migliore dei modi»

Davanti le Telecamere di ParvapoliS con Fabio Zavattaro, giornalista, vaticanista del Tg1 Rai, che ha partecipato ai "Dialoghi Marciani" nella Cattedrale di San Marco a Latina. I "Dialoghi" (sabato 22 aprile l'incontro con il vaticanista del Corriere della Sera, Luigi Accattoli e con Mons. Domenico Sigalini, vescovo di Palestrina; domenica 23 il confronto tra Fabio Zavattaro e Mons. Angelo Amato, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede; lunedì 24 infine il dialogo tra Floriana Giancotti, preside del Liceo Majorana di Latina e Mons. Francesco Lambiasi, assistente ecclesiastico generale dell'Azione Cattolica) rappresentano l'avvicinamento alla festività di San Marco, patrono di Latina, che sarà celebrata martedì 25 aprile. Cosa significa oggi essere giornalista vaticanista? «È il significato di raccontare alla gente ciò che accade in Vaticano, nel mondo della Chiesa, e di cercare di raccontarlo con la sensibilità dovuta ad un argomento così importante e così forte. Bisogna soprattutto stare attenti alle sensibilità, perché quando si racconta un avvenimento vaticano ci rivolgiamo ad un pubblico che crede, ma anche ad un pubblico che non crede: l'importante è quindi riuscire ad evitare che qualcuno spenga la televisione, perché non gli piace ciò che raccontiamo. Dobbiamo raccontarlo soprattutto in un modo efficace, in verità e con grande professionalità». Lei lo stava già accennando: quali sono le maggiori difficoltà di questo ruolo? «Sono appunto di poter informare la gente nel migliore dei modi, ma soprattutto di dover raccontare un avvenimento con i tempi televisivi che sono molto ristretti. È quindi l'essenzialità l'aspetto che, forse, molte volte ci coglie impreparati, nel senso che avremmo bisogno di qualche riga in più, mentre dobbiamo sempre tagliare. Questa è la difficoltà maggiore che ci portiamo dietro, per cui a volte l'informazione rischia di essere troppo essenziale, a volte troppo superficiale». Il pontificato di Giovanni Paolo II è stato il più "mediatico" della storia: quale ritiene sia stato l'impatto sul pianeta? «Giovanni Paolo II ha vissuto con la televisione e con i mezzi di informazione: il suo è stato il primo pontificato davvero "in diretta televisiva". Il suo volto è entrato in tutte le case di tutto il mondo. Mi viene in mente il primo viaggio in Messico, a pochi mesi dall'elezione: da Città del Messico a Puebla ci sono più di centro chilometri (centotrenta se non ricordo male) e lui ha trovato centotrenta chilometri di persone in fila che lo acclamavano. Mi raccontavano che quando si accendevano le luci della Nunziatura dove il Papa riposava, la gente iniziava a cantare, perché pensava che si fosse svegliato e quindi gli rendeva omaggio con la canzone. È stato un pontificato vissuto davanti alle telecamere e agli obiettivi dei fotografi, ma anche un pontificato che ha saputo utilizzare questi mezzi per un messaggio molto alto». Ritiene che il pontificato di Benedetto XVI sarà altrettanto "mediatico"? Ribalto la domanda: è giunto il momento in cui è stato superato un ponte e non si può tornare indietro da questo punto di vista? «Indubbiamente non si può più tornare indietro. Ogni papa ha il suo stile, la sua cifra, per raccontare il proprio essere pastore della Chiesa, per cui la scelta di Giovanni Paolo II è stata quella di essere presente con i mezzi televisivi, con la sua "vivacità", con la sua capacità di essere "attore" (come lo fu in gioventù). Benedetto XVI ha forse - in questo momento - una maggiore difficoltà ad essere presente sulla scena, ma questo non perché lui non voglia esserlo, ma perché è una persone che vive la sua vita in modo più essenziale, è più abituato allo studio e quindi (lo vediamo in questo primo anno) i suoi gesti di fronte alla televisione sono cresciuti giorno dopo giorno. Questo vuol dire che comunque il suo pontificato sarà sotto gli obiettivi ed i flash dei fotografi, ma sarà un pontificato che sceglierà una sua strada per raccontare ai fotografi, alle televisioni, ai giornali, alle radio, il suo modo di essere pastore della Chiesa». Dal punto di vista dei rapporti con i media, quale fu l'importanza della decisione di Giovanni Paolo II di affidare la direzione della Sala Stampa della Santa Sede ad un giornalista, Joaquim Navarro Vals? «Fu una scelta importante, perché si era abituati ad avere una sala stampa "ufficiale". Non che con Navarro Vals non lo fosse, ma era "ufficiale" nel senso che c'erano vescovi, sacerdoti. L'arrivo di un laico in qualche modo ha portato ad avere un rapporto diverso con i mezzi d'informazione. Era un laico che si trovava a raccontare la parte ufficiale, che si trovava a dire quali erano i pensieri della Segreteria di Stato, quali erano gli atti ufficiali. In un certo senso si è "laicizzata" (se mi si consente il termine) la comunicazione, e questo ha influito. Il pontificato di Giovanni Paolo II era già un pontificato che cresceva con il mondo dei media; Navarro Vals è arrivato nel 1985-86 a ricoprire la carica di direttore della Sala Stampa e quindi erano già alcuni anni che Giovanni Paolo II girava per il mondo e incontrava il mondo della comunicazione. Con Navarro Vals c'è stato il salto, il cambiamento, ma era un cambiamento che era già naturale nel cammino di Giovanni Paolo II».

Andrea Apruzzese

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