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Latina. Dove sta andando la comunicazione. Francesco Pira: «Il nostro è un mestiere ogni giorno più difficile ed ogni giorno più mal pagato»
Davanti le Telecamere di ParvapoliS con il prof. Francesco Pira, giornalista, docente di Comunicazione Pubblica e Sociale presso l'Università di Udine, opinionista di numerosi quotidiani e periodici, nonché autore di diversi saggi sulla comunicazione. Tra i suoi testi più recenti figurano "Come comunicare il sociale", "Comunicare il Comune", "Dall'E-Commerce all'E-Government", ed è coautore di "Comunicare la politica" e "La nuova comunicazione politica". Nell'ambito delle sue attività di docenza, coordina le ricerche condotte dagli studenti dei suoi corsi sulla comunicazione dei siti web politici, di quelli istituzionali e del settore no-profit.
Multimedialità, internet, Tv sui cellulari: dove sta andando la comunicazione?
«Sta diventando molto più veloce, ma sta diventando anche più incontrollata: parlare di televisione sui cellulari forse è una cosa che può far piacere a chi vuol vedere i gol della squadra del cuore sul proprio telefonino, ma diventa un po' più complesso se arrivano o se vengono vendute immagini pedopornografiche. Forse occorrerebbe capire quale approccio etico dare ad una situazione di questo tipo. Come abbiamo visto anche in questi giorni in un bellissimo servizio fatto dalla trasmissione "Reportage" di Rai3, stiamo andando verso qualcosa di incontrollato, verso qualcosa che è diventato solo ed esclusivamente un business. Credo che dovremmo reintrodurre maggiormente la parola "etica" nella comunicazione, e forse le cose andrebbero in maniera diversa».
Il "villaggio globale" di Marshall McLuhan: secondo lei è ancora tale oppure si sta sviluppando una sorta di "glocalizzazione" (pensiamo alle Tv di quartiere od allo stesso Internet, che, in un certo senso, "restringe" il pianeta)?
«Sicuramente ci arriveremo, l'America ce lo insegna: tutti gli studi e le ricerche condotte ce lo hanno spiegato. Anche lo stesso sviluppo in Italia ci sta portando verso una glocalizzazione, e soprattutto ci sta portando verso una sorta di "Tv di prossimità", cioé una televisione che è capace di raggiungere il telespettatore. Anche Internet sta diventando un sistema utile per cercare di raggiungere più persone sempre con il minimo sforzo. Non so però quanto tutto questo possa poi corrispondere alla qualità».
A proposito proprio di qualità e di nuove tecnologie, che rendono ormai alla portata di tutti la produzione di comunicazione, secondo lei inizia ad esserci una sorta di inversione tra il ruolo dell'operatore della comunicazione ed il fruitore della comunicazione stessa, penso ad esempio ai blog di normali cittadini che per caso assistono ad un evento e poi ne pubblicano testimonianze ed immagini sul web (come avvenne per gli attentati di Londra del luglio 2005)?
«Si, assolutamente, c'è però sempre una regia pilotata. I blog sono un sistema di comunicazione abbastanza veloce, ma anche abbastanza libero, non dimentichiamoci che chi ha scritto i blog più belli, oggi si ritrova ad essere corrispondente dei giornali più importanti (sto parlando ad esempio dell'esperienza irachena). Pensiamo alla televisione che ha fondato negli Usa Al Gore, che permette a qualunque americano di mandare le proprie immagini, un proprio servizio, e di essere pagato 250 dollari per quello che viene messo in onda. Il problema è sempre ragionare su chi è alla regia e su chi lavora al broadcast: c'è sempre un controllo finale ed è molto difficile capire poi quanto - alla fine - rimane di libertà».
La mole di informazioni che raggiunge il fruitore è positiva o negativa?
«Secondo me è tanta, e soprattutto non è selezionata. C'è una situazione che gli psicologi americani chiamano di "overloading", ovvero di intasamento del nostro cervello da messaggi che non sempre sono positivi, e molto spesso sono condizionanti. Preoccupa una comunicazione persuasiva che molto spesso raggiunge il cittadino, ma lo fa sentire costantemente un consumatore. In un'etica di comunicazione, alcune comunicazioni, penso a quella sociale, a quella politica, a quella pubblica, dovrebbero preoccuparsi più del ricevente e un po' meno dell'emittente o di chi trasmette il messaggio. Invece io credo che tutto viene fatto ad uso e consumo del business, e quindi del tentare di vendere un prodotto, anche quando parliamo, per esempio, di un partito politico».
Lei è docente universitario e da molti anni si rapporta con i suoi allievi, ragazzi e ragazze che, una volta laureati, intendono occuparsi di comunicazione o diventare giornalisti. Come si preparano questi ragazzi ad una professione come quella giornalistica?
«Oggi si sta pensando all'ennesima riforma della professione, che non sappiamo se sarà varata; si stanno preparando (anche ad Udine, dove io sono all'interno del progetto) dei Master Universitari che faranno diventare gli studenti giornalisti professionisti. Credo che il problema sia legato al comprendere se l'Ordine dei Giornalisti continuerà ad esistere (visto poi che l'Italia è l'unico Paese in Europa ad avere un ordine professionale), e quanto le scuole di giornalismo formano persone che poi sono pronte per entrare nel mondo del lavoro. Non dimentichiamoci che gli americani, per esempio, dopo tre anni di scuola di giornalismo fanno svolgere un anno di stage in un giornale o in una televisione, e quindi preparano al lavoro effettivo. Bisognerà quindi vedere, al di là delle nozioni teoriche, quanto poi nella parte pratica questi giornalisti saranno pronti ad affrontare anche un tipo di giornalismo specializzato, quello che in questo momento sta garantendo una minima corresponsione economica a delle persone che si affacciano ad un mestiere che diventa sempre più difficile e sempre più mal pagato».
Andrea Apruzzese
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