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Latina. Città nuove e falsi storici. Antonio Pennacchi su Limes: «Nuove precisazioni sulle castronerie della mostra di qualche mese fa»
Arborea, in provincia di Oristano, una volta si chiamava Mussolinia di Sardegna. Sta sul versante Ovest dell’isola, a 4 chilometri dal mare, nella piana bonificata di Terralba, che ai primi del Novecento era tutto un deserto paludoso-malarico, alluvionato periodicamente dal Rio Mogoro, un torrente quasi secco d’estate ma che quando pioveva diventava una furia: “torrente [che] al rinnovar dell’anno”, come dice l’Alfieri, “tutto inonda, scompon, schianta, travolve” . E l’acque poi restavano là, nel levissimo declivio della piana – senza più alcuna forza per arrivare a mare – a ristagnare nei mesi estivi e disseccarsi al sole, ricettacolo della zanzara anofele, portatrice di malaria. “La carta d’Italia dell’Igm, edita nel 1909, riporta per quest’area soltanto due case, una ad ovest ed una a nord dello stagno di Sassu” , il peggio del peggio, che stava a 80 centimetri sotto il livello del mare. Arborea già Mussolinia sta lì, ed oggi è uno dei più floridi comuni della Sardegna, disseminato di aziende agricole, bestiame, vigne e filari giganteschi di eucalyptus.
Se l’Agro Pontino, però, era la culla e il luogo di elezione dell’équipe realizzatrice della mostra-catalogo di cui abbiamo già trattato , la Sardegna lo è invece di chi – garantendone qualità e rigore scientifico – ne firma la cura , ovverosia un docente di storia dell’arte contemporanea presso l’università di Cagliari , di cui è pure assessore comunale alla cultura. Se l’Agro Pontino era casa loro, la Sardegna è casa sua e chissà quindi come la conosce.
Io adesso non so niente di storia dell’arte – come peraltro so poco di professori universitari – ma questa in oggetto non era, o almeno mi pare, una mostra di storia dell’arte in cui si tratta di pure forme o di pittori e artisti. Qui si trattava di architettura e storia urbana – e quindi di storia generale oltre che di storia dell’urbanistica, la quale ultima però, come ogni singola storia settoriale, ha i suoi specifici linguaggi ed instrumenta – ma in riferimento alla città di Mussolinia di Sardegna, di cui pure il curatore pare essere lo storico ufficiale , in questo catalogo non c’è traccia di schema programmatico o piano regolatore, come di qualsivoglia pianta, mappa o planimetria. C’è solo una “vista a volo d’uccello” – una rappresentazione cioè di tipo pittorico, la stessa che si vede da sempre in giro ma di nessunissima utilità cartografico-scientifica – a cui hanno scritto sotto, in didascalia: “Mussolinia, planimetria a volo d’uccello” .
Ora, in realtà, in qualunque istituto per geometri del regno la planimetria è un disegno in scala che permette, attraverso la misurazione delle linee con opportune squadrette o righelli millimetrati, di calcolare le effettive distanze sul terreno – quanto è lungo o largo un muro, un edificio, un campo o una strada – e il tutto è rappresentato su di un solo piano cartesiano (l’orizzontale), con rigoroso e matematico rapporto, appunto, alla effettiva consistenza reale: non per niente si chiama “planimetria” (da “piano” e da “metro”) e serve proprio per misurare. La “vista a volo d’uccello” è invece una cosa più di fantasia, tesa a dare un’idea generale e approssimativa di come è la vista d’assieme e dall’alto. Essa si gioca sui tre piani cartesiani ma – volendo rappresentare anche il senso fisico stesso delle distanze e profondità, da cui l’illusoria virtualità pittorico-artistica – non è nemmeno un’assonometria (che è sempre comunque in scala), bensì una prospettiva, e tu ci puoi stare pure sopra una vita con la squadretta in mano, ma non riuscirai mai a calcolare quanto è davvero lungo un muro e quanto sono distanti le strade e gli edifici . Ergo, la vista a volo d’uccello non è una pianta e non è una planimetria.
Dice: “Ma che me ne frega a me? Cosa vuoi che sappia io di piante, prospettive, assonometrie e planimetrie? Mica la gente è obbligata tutta a saper leggere un disegno. Gli architetti e i geometri ci stanno apposta”. Ma io mica difatti ce l’ho con te. Tu, se vuoi, sei pure autorizzato a non saperlo e a non saper leggere un disegno. Mica insegni scienza delle costruzioni all’università. E manco firmi cataloghi di architettura. Ma se tu domani vai dal medico e quello si sbaglia a scrivere le ricette – oppure le analisi, e magari esce che hai un tumore allo scroto e ti debbono tagliare i testicoli, quando invece avevi solo il raffreddore, o un’incordatura – voglio vedere come ti metti.
Dice: “Vabbe’, ma è tutto qua?”. No, perché il non avere consapevolezza di quali siano effettivamente le eventuali distinzioni e differenze – e di cosa voglia veramente dire piano regolatore, piante, planimetrie, calce, mattoni e viste a volo d’uccello – può portare anche a commettere altre più gravi serie di errori, sfondoni, confusioni e, Dio non voglia, falsificazioni. Nell’intestazione del capitolo che la riguarda , peraltro, è scritto pure: “Mussolinia di Sardegna (oggi Arborea). Datazione 1928-35 […] Progettisti C. Avanzini-F. Scano-G.B. Ceas” .
Mo’ lasciamo perdere che nella stessa intestazione si dice anche: “Committente: Società bonifiche sarde; Istituto per la ricostruzione industriale” , quando invece l’Iri nasce nel 1933, e non si capisce quindi come avrebbe fatto a commissionare una città-nuova già fondata nel 1928: va bene che erano fasci, ma mica avevano la macchina del tempo. Ma questa la ripigliamo un’altra volta, come anche tutte le questioni di paternità e datazione della intera bonifica della piana di Terralba. Al di là del nomen-omen di Mussolinia difatti – e della indubitabilità che ogni compiuta realizzazione arrivi durante il fascismo – queste cose precedono e di molto l’avvento del fascismo stesso, risalendo all’epoca e ai circoli nittiano-turatiani, oltre che naturalmente alla Banca Commerciale (Comit) . E’ difatti con Nitti ministro dell’Agricoltura nel 1913 che si promulga la legislazione, e si dà avvio alla costruzione, della diga sul Tirso e ai fenomeni collegati, quali appunto la bonifica della piana di Terralba. I lavori per la diga – iniziati già nel 1917, a guerra ancora in corso – arriveranno a ultimazione nel 1924 (inaugurazione) , mentre quelli della bonifica avranno inizio nel 1919, a guerra ultimata ma sempre tre anni prima della marcia su Roma.
Resta però che se uno legge ciò che è scritto lì sopra – e magari è uno studente d’architettura che poi deve sostenere l’esame, perché proprio per le università pare che quel catalogo sia stato fatto – quello si crede giustamente che la città di Mussolinia di Sardegna, oggi Arborea in provincia di Oristano, è stata progettata nel suo impianto urbano ed urbanistico, planimetrie e disposizioni dall’ing. Carlo Avanzini, dall’ing. Flavio Scano e dall’arch. Giovanni Battista Ceas. Magari se li immagina proprio che stanno tutti e tre dietro il tavolo da disegno a discutere e progettare insieme Mussolinia. E invece non è così.
Progettare una città – al di là di quello che magari insegna qualche Storia dell’arte, che io comunque, ripeto, non conosco tanto bene – non vuol dire avere progettato un edificio. Architettura ed urbanistica, difatti, sono due cose diverse. Una cosa sono i singoli edifici ed un’altra la città. La città è l’insieme – è come e dove stanno messi gli edifici – è le relazioni funzionali che intercorrono tra un edificio e l’altro, e le relazioni che intercorrono tra la gente che attraversa e vive la città e raggiunge e vive gli spazi e gli edifici. Il progettista della città non è quindi colui che eventualmente progetta le case, bensì colui che ne ha disegnato o pensato lo schema urbanistico e l’eventuale zonizzazione, l’articolazione degli spazi e il primo reticolo delle vie: qui ci vanno gli edifici pubblico-amministrativi, la chiesa, il comune; là vannno le case di abitazione, quelle degli operai, dei dirigenti; qui le aree produttive; là il tempo libero, il cinema, il bar, l’osteria; qui si può costruire e qui no; le case debbono essere allineate o meno, debbono distare tanti metri dal ciglio della strada; tanto di edificato e tanto di aree verdi, cubature, ecc. – è questo che vuol dire progettare una città. Poi magari di palazzi non ne disegna e costruisce uno, ma è lui che ha progettato la città.
Nel caso di Mussolinia di Sardegna non si può dire in effetti che ci sia stato un vero e proprio piano regolatore come lo intendiamo oggi: preciso, articolato e completo pure di regolamenti e previsioni di sviluppo. All’inizio – 1924-25 – nei circa 18mila ettari della piana di Terralba affidati alla Sbs (Società bonifiche sarde di proprietà della Ses, Società elettrica sarda di proprietà a sua volta Bastogi-Comit) ci sono dei centri aziendali, punto e basta. Anzi il primo di questi centri, Tanca Marchesa – anche scritto Tanca del Marchese – nasce contestualmente all’inizio dei lavori di bonifica nel 1919 ; altro che “dalla metà degli anni venti” come recita invece quel catalogo , quasi a voler ascrivere per forza tutto quanto al fascio (per la precisione, risultano già al lavoro a Tanca Marchesa i primi cento operai l’1 marzo 1919, mentre il centro colonico risulta ultimato “meno di due anni dopo” : nel 1920 quindi o, al più tardi, a gennaio-febbraio 1921.)
Questi centri aziendali reggono ognuno una tenuta agricola di 600 ettari a conduzione moderno-capitalistica – assolutamente non a mezzadria o a case sparse, in questa fase – e sono costituiti da una fila di caseggiati per salariati e personale tecnico, l’amministrazione, ricoveri, magazzini e stalle, disposti attorno ad un quadrilatero di circa 170 metri di lato. Ora si tratterebbe di vedere se questi agglomerati costituiscono dei meri “centri aziendali” o se contengono già in nuce – in termini di articolazione pubblico-privato, collettivo-individuale e padronale-dipendente – elementi tali da potersi connotare come embrioni di urbanizzazione e quindi nuove fondazioni. Per taluni di essi, ad esempio, risulta la presenza di scuole rurali; ma per poterne stabilire la distinzione ontologica tra “centro aziendale” e “villaggio”, bisognerebbe almeno appurarne la presenza consapevole e programmata di luoghi e spazi di socializzazione e scambio, come botteghe, chiesette, ritrovi od osterie. Comunque, secondo le fonti, sono stati quasi tutti progettati dall’ing. Carlo Avanzini, direttore dal 1921 circa della Società sarda di costruzioni, emanazione diretta anch’essa della Sbs (è un gioco di scatole cinesi, alla fine del quale c’è sempre Comit) che sta operando la bonifica e che è sotto l’imperio dell’ingegnere vicentino Giulio Dolcetta. Questo Dolcetta è il demiurgo vero di Mussolinia – una specie di Cencelli dell’Arborea – ed è anche cognato del suddetto ing. Avanzini, che è un tecnico che lavora sul campo. Uno di questi centri aziendali è Ala Birdis – più spesso scritto Alabirdis – che oltre al grande spiazzo quadrangolare contornato dai regolamentari caseggiati per tecnici e contadini, gode quasi sicuramente di una maggiore dotazione di ricoveri per macchinari e magazzini . Alabirdis vede la sua realizzazione tra 1924 e 1925.
Man mano che la bonifica avanza – e man mano che, parallelamente al cambio di quadro politico e all’affermarsi del fascismo, cambiano anche le strategie di intervento fondiario – cominciano ad arrivare i coloni che dovranno risiedere stabilmente sui terreni bonificati. Quei centri aziendali erano stati costruiti in quel determinato modo e se ne sarebbero dovuti costruire altri ancora, perché la conduzione agraria era in origine prevista a mezzo di grandi aziende di tipo capitalistico, fortemente meccanizzate e a basso tasso di mano d’opera – in particolare salariati fissi, e assai pochi braccianti – concentrata in quei nuclei. E’ solo in un secondo momento, pare, che si opta per la conduzione a “case sparse” e mezzadria, e non è probabilmente del tutto ininfluente, anzi – in questo cambio d’opzione – il succitato cambio di quadro politico e le avanzanti ideologie ruralistiche. Ma è dopo questa inversione di rotta – e collateralmente all’aumento di afflusso dei nuovi coloni – che si decide di costruire a fianco ad Alabirdis un vero e proprio villaggio, che funzioni da centro di urbanizzazione di tutto il territorio. L’idea e l’iniziativa stessa di questo nuovo villaggio sono del prefetto di Rovigo – la provincia inizialmente maggiormente tributaria di nuovi coloni – che riesce a farselo finanziare dalla Cassa di risparmio delle province lombarde . Il prefetto si chiamava Pietro Giacone – che ritroveremo poi a Littoria – ed è quindi lui, volendo, il vero padre fondatore di Mussolinia; senza con questo nulla togliere a Giulio Dolcetta che, nell’animo popolare, ad Arborea è giustamente considerato ancora tale.
A questo Villaggio Alabirdis (così si chiama all’inizio) viene imposto il 29 ottobre 1928 il nome di Villaggio Mussolini, che cambierà ancora in Mussolinia di Sardegna due anni dopo – il 29 dicembre 1930 – con la elevazione a comune. Ma il Villaggio Alabirdis (che prima ancora era quindi solo Alabirdis senza Villaggio, poi Villaggio Mussolini e infine Mussolinia di Sardegna) viene interamente progettato sia nell’articolazione degli spazi che nel reticolo delle vie, ma anche nei singoli edifici uno per uno – dalla locanda del Gallo Bianco al municipio, alla villa di Dolcetta, alle case degli operai, alla scuola, al mercato, all’ospedale, alla caserma dei carabinieri – dall’ingegner Carlo Avanzini. Tutto eccetto la chiesa, che fecero invece disegnare a Bianchi, un architetto milanese.
Sia chiaro che qui non stiamo parlando di un intervento urbanistico, di una forma urbis o di un piano regolatore da inserire negli annali di storia dell’architettura come modello per le future generazioni. Avanzini fa un villaggio: uno spiazzo rettangolare sul cui lato minore, a Ovest, si collocano gli edifici dirigenziali: azienda e municipio. Dall’altra parte, a Est, c’è la chiesa, e sui lati maggiori tutto quello che serve a un “centro”: scuole, botteghe, bar, locanda e qualche abitazione. Facendo perno sul lato Sud s’allarga poi un ulteriore isolato – comprendente mercato coperto, panificio, carabinieri e, in fondo, ospedale – in cui nel 1935 prenderà posto anche la caserma della milizia Mvsn. Tutto qua: è un villaggio e, quando lo realizzano, ancora non sanno che poi diverrà comune (il municipio difatti s’aggiungerà in corso d’opera) e Avanzini lo mette proprio qui perché è la posizione mediano-baricentrica dei 18mila ettari di bonifica Sbs. Qui peraltro c’era già la tenuta Alabirdis, internata di circa 300 metri rispetto alla strada Rettifilo, l’asse viario principale del comprensorio – il cardo – a fianco del quale scorre, tranquillamente importante, un canale di irrigazione con le sponde in cemento.
E’ altresì chiaro che la forma urbis che viene così a delinearsi – a “centometrista” quasi, volendo considerare anche l’area occupata da caseifico ed officine varie; oppure a “pompa di benzina”, senza quest’area ma orientandola a Est – non è molto razionale. La “zona” con destinazione residenziale e servizi è difatti assai più piccola di quella cosiddetta “produttiva”, mentre l’altra zona a parziale vocazione residenziale – cioè la vecchia tenuita Alabirdis – è separata nettamente dal nuovo centro urbano proprio dalla preponderanza delle attività produttive (mulino, silos, enopolio, magazzini, ricoveri, officine ecc.). Questo non potrà poi non incidere sulle tendenze e lo sviluppo di Mussolinia-Arborea, che difatti ha visto sino ad oggi la sua espansione residenziale muoversi prevalentemente tutta verso Sud e soprattutto Sudovest, in direzione opposta se non quasi antagonista ai nuclei originari. Oggi si registra di fatto una relegazione del “centro” urbano nel quadrante più piccolo e marginale di Nordest, in posizione fortemente eccentrica alla gran massa dell’abitato.
Però Avanzini non aveva altre possibilità, o meglio: ha operato al meglio delle possibilità che aveva. Prima – quando doveva fare solo aziende agricole – le ubicava all’interno, a 300 metri dalla strada. Poi gli dicono di fare un villaggio – che è un’altra cosa – e anche nel disegno delle case si sforza di profondere un maggiore senso e contenuto artistici, le riempie di elementi decorativi, anche floreali: “Dev’èsse bello”. Dovendolo poi posizionare da qualche parte – da qualche parte lo deve pure mettere – ne sceglie l’ubicazione in base a segni forti: lo mette a cavallo della strada e del canale. La strada Rettifilo diventa così – assieme al canale – il cardo maximus, oltre che della bonifica, anche dello stesso e nuovo organismo urbano, mentre la vecchia strada d’accesso alla tenuta Alabirdis, ribattezzata oramai Corso o Via del Littorio, ne diviena il decumanus (raramente peraltro – se non l’unico caso – il canonico orientamento N-S previsto dagli antichi per il cardo, e quello E-O per il decumanus, verranno rispettati come qui a Mussolinia). Certo è un po’ in controtendenza con i dettami dell’urbanistica più moderna e contemporanea, ma allora funzionava così e tu oggi, sulla piazza di Arborea, per andare dalla piazza e dai giardini davanti alla chiesa fino al municipio, non solo devi attraversare la strada provinciale Rettifilo, ma devi pure attraversare un ponte su un canale che ha l’acqua che scorre sotto.
E questo sì – il corso d’acqua che attraversa una città, come segno maggiormente caratterizzante l’impianto urbano – è una cosa che, pure se non la trovi più sui manuali di urbanistica moderna, la trovi però su tutti quelli di architettura e di urbanistica antica, perché tutte così nascevano una volta le città: attorno all’acqua. Solo in questo catalogo non è stato capito, e non c’è una sola riga in tutte le pagine dedicate ad Arborea già Mussolinia di Sardegna, in cui si spieghi chiaramente che è attraversata da un canale . Non se ne sono quasi manco accorti, non lo hanno ritenuto importante, ma è come se – volendo fare un catalogo delle maggiori città italiane – tu parlassi per pagine e pagine di Roma e di Firenze senza però mai dire che in una c’è il Tevere e nell’altra c’è l’Arno. Il malcapitato che legge e basta – senza poterci poi venire – morirà pensando che qua era tutto asciutto. Mica lo saprà mai che per andare da una parte all’altra – da un quartiere all’altro – bisognava fare avanti e indietro sopra i ponti. (Ci poteva pure pescare, se voleva: hai visto mai?).
Adesso però pare – o almeno tempo fa pareva – che qualcuno ad Arborea lo voglia ricoprire questo canale. Non gli piace più: “In fin dei conti oramai c’è la condotta d’irrigazione sotterranea, che lo teniamo a fare?”. Prima o poi gli danno una cattedra anche a lui.
Antonio Pennacchi
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