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Latina. Metti Hegel in redazione. Dall'agorà alle aule accademiche: senso e destino. Per Rubbettino il nuovo saggio di Giancristiano Desiderio

In un posto, come la redazione di un giornale, dove ignoranza e presunzione sono di casa, un libro dal titolo «Hegel in redazione» può sembrare una provocazione esagerata. Qui si fa fatica a conoscere il verbo essere, altro che idealismo tedesco. L'autore di questa (bella) idea, pubblicata dalla Rubbettino, è Giancristiano Desiderio, già vicedirettore de «L'Indipendente», editorialista de «Libero», autore Rai e con alle spalle numerosi libri che hanno come comune denominatore il rapporto tra le idee e la libertà: «Le uova e la frittata. Filosofia e libertà in Benedetto Croce, Hanna Arendt, Isaiah Berlin», «Platone e il calcio», «Il bugiardo metafisico». Cosa c'entri davvero Hegel con il giornalismo lui te lo spiega subito così. Hegel a fare il giornalista ci provò sul serio. Mica pizza e fichi. Fu assunto per un paio d'anni come caporedattore di un quotidiano, la «Bamberger Zeitung». Voleva farne un giornale d'opinione. «Ma lo stato bavarese, che faceva sentire la sua presenza ai semplici notiziari, a maggior ragione esercitava il controllo su di un giornale di opinione, e così il "redattore filosofo", che era desideroso di mettersi al servizio dello stato, era insofferente della vita che conduceva nel "mio giornale-galera" e la sua esperienza redazionale, iniziata nel marzo del 1807, finì nell'ottobre del 1808, quando fu nominato professore di scienze filosofiche propedeutiche e rettore del ginnasio di Tubinga». Se non fosse troppo da sfigati, dopo aver scritto un capolavoro senza tempo come la «Fenomenologia dello Spirito», occuparsi della «Bamberger Zeitung» Desiderio non lo dice. Lascia la risposta alla nostra intelligenze e alla nostra fantasia. Ci riferisce solo che Hegel si disse condannato da Dio a essere un filosofo, mentre ci sono alcuni giornalisti che si ritengono condannati da Dio ad essere dei padreterni. «Hegel in redazione» è una raccolta spiritosa, brillante di istruzioni per l'uso (e l'abuso) della filosofia. Una filosofia, qui la sua attinenza con l'arte volgare del giornalismo, che deve pensare il mondo. Pensarlo, non cambiarlo. «L'ultima volta che un filosofo, Marx, ha detto "la filosofia finora ha solo interpretato il mondo, adesso si tratta di cambiarlo" è stato il finimondo». Questa filosofia viene organizzata e raccontata a capriccio dell'autore, partendo dall'antica Grecia, passando per ii "figli di Hegel" ed arrivando fino a Berlusconi. «Silvio Berlusconi è anticomunista, ma la casa editrice che porta il suo nome e cognome, pubblica un'edizione pregiata e raffinata della Bibbia del Comunismo: «Il Manifesto del Partito Comunista» di Marx ed Engels. Inoltre, Lucio Colletti, prima marxista e poi demolitore del marxismo, firma un'ampia prefazione. Per dire cosa? Per fare un'importante precisazione: di Marx ne esistono due, uno buono e uno cattivo. Quello buono è il Marx sociologo del capitalismo, quello cattivo è il Marx profeta del comunismo. Insomma, Colletti, da filosofo quale senz'altro è, invita a fare con Marx quello che Croce fece con Hegel quando scrisse il saggio giustamente famoso «Ciò che vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel». Invito doppiamente importante, dal momento che lo stesso Colletti vede la parte morta del pensiero di Marx strettamente imparentata con il filosofo dell'idealismo assoluto. Come, infatti, la filosofia della storia di Hegel corre di gran carriera verso la sua meta, lo Spirito Assoluto, così la filosofia della storia di Marx corre spedita verso la terra promessa del comunismo. Mentre però nella filosofia della storia hegeliana c'è un doppio binario, uno reale ed uno ideale, e la meta ultima è in definitiva la Filosofia medesima, nella filosofia della storia marxista c'è un binario unico, quello reale, e la meta ultima è la Storia. Marx, come dice Colletti, è stato senza dubbio un profeta, e nell'ambito della sua catastrofica profezia ha svolto anche una intelligente analisi della società capitalista, però, tra i suoi obiettivi ce n'era anche un altro, e non era quello secondario: uccidere la filosofia».

Mauro Cascio


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