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Latina. Dopo la proposta di Daniele Capezzone. Paolo Gambescia. «Si è giornalisti se si fa i giornalisti, non se si è iscritti all'Ordine»

Davanti le Telecamere di ParvapoliS con l'on. Paolo Gambescia. Già direttore dei quotidiani "Il Messaggero", "Il Mattino", "L'Unità", co-fondatore insieme a Maurizio Costanzo, nel 1978, de "L'Occhio", oggi è deputato per l'Ulivo, eletto nelle scorse consultazioni politiche del 9 e 10 aprile 2006. On. Gambescia, perché è passato dal giornalismo all'impegno parlamentare? «Sono due cose diverse: ho deciso di lasciare il giornalismo perché, se non ci sono più stimoli - e dopo 41 anni e otto di direzione è difficile che ci siano - è bene che si cambi. Quindi io prima ho deciso di lasciare il giornalismo e dopo mi è stato chiesto se volevo candidarmi, e ho deciso di farlo. La politica è stato comunque il primo amore: sono entrato all'università nel 1964-65, quando ancora il '68 era di là da venire. Allora erano continui gli scontri tra i gruppi neo fascisti de La Sapienza e i ragazzi della Figc. Venivo anche da una famiglia impegnata in politica: mio padre era stato segretario del Psi in Abruzzo. La politica ce l'ho nel sangue». Quando morì Indro Montanelli cinque anni fa, lei titolò sul "Mattino" «È morto il Maestro». Io la intervistai il giorno dopo e lei mi disse che Montanelli ci lasciava una lezione di giornalismo di grande impegno, che fa riflettere, e di assunzione delle proprie responsabilità. Oggi quanto c'è di quella lezione nel giornalismo italiano? «Ma non c'era neanche prima; è un maestro proprio perché i maestri sono inimitabili. Rimane qualcosa in ognuno di noi, ma io trovo il giornalismo molto peggiorato». In cosa? «Trovo i giornali tutti uguali. Trovo sempre più il ricorso a fonti esterne non verificate: paradossalmente, sono aumentate le possibilità di conoscenza, ma sono diminuite le possibilità di fare un prodotto che approfondisca gli argomenti, e spesso si può fare a meno dei giornali. E questo è grave; non è senza motivo che i giornali che hanno successo sono quasi sempre giornali che hanno a monte una testata grande, ma poi si calano nella realtà locale, oppure sono i giornali locali, cioé quelli che sono più vicini alla gente. Le pagine di cronaca locale del "Messaggero", per esempio, sono una forza straordinaria, nel senso che il 50% dei lettori di un giornale come il "Messaggero" (ma posso dire "Il Resto del Carlino" o "La Nazione"), compra il giornale perché ci sono le cronache locali: il lettore si avvicina al giornale che è più vicino ai suoi interessi, perché l'informazione generale la ricava dalla televisione, da internet, da televideo. Tra i giornali, vincerà il primo che riuscirà a fare un prodotto che non è simile agli altri: per fare questo, ci vuole grande forza dei giornalisti e ci vuole grande disponibilità degli editori, ma non sempre gli editori vogliono correre il rischio». Lei ha toccato il tema del giornalismo su internet: ritenga che sia una forma di concorrenza rispetto alla carta stampata o sono due cose differenti? «Io la penso come i guru americani: sono due cose diverse. Ma qual è il problema? È che internet ti porta dentro casa una quantità di materiale non verificabile, perché il circuito mondiale ti impedisce - nei tempi necessari per fare un'informazione corretta - di approfondire. Io insegno all'università e spesso faccio degli esempi per spiegare come qualcosa che era stato dato per assodato dalla stampa di tutto il mondo e che nasceva da un'informazione che passava attraverso internet, si era rivelata assolutamente falsa. Pensiamo alla strage di Timisoara: dopo tre anni si è scoperto che non esisteva, eppure si vedevano dei corpi, sembrava ci fossero le prove tangibili. Il problema è che tu non hai la possibilità di controllare che cosa viene messo nel circuito e questo fa sì che i giornalisti si debbano assumere maggiori responsabilità individuali, e al limite rifiutarsi di avallare con la loro firma notizie e informazioni che vengono da siti sconosciuti o da situazioni non verificabili». Dal 2003 lei è docente universitario di giornalismo e di comunicazione politica. La formazione dei giornalisti in Italia oggi deve avvenire più nelle scuole o più nella pratica della redazione, come in precedenza? «Le scuole non servono per la professione; sono utili per dare una base culturale, alcuni punti di riferimento, ma questo è un mestiere che si impara camminando, andando sui posti, guardando con i propri occhi, raccontando e avendo la capacità di selezionare quello che si vede, e di raccontarlo fornendo una spiegazione di quello che si vede. La scuola non ti può insegnare tutto questo: ti può insegnare, per esempio, a diffidare, a verificare, ad usare alcuni strumenti di conoscenza. Poi dipende dalla sensibilità e dai maestri: uno dei problemi del giornalismo oggi in Italia è che non ci sono più i maestri che hanno voglia di insegnarti, di prenderti a calci per rimandarti sul posto perché la notizia non l'hai portata correttamente, perché non hai preso la fotografia della vittima di un incidente stradale o di un delitto. Perché non ci sono più i maestri? Perché ormai premi un tasto e ti arrivano le agenzie, ascolti la radio della polizia e il discorso finisce lì». Il leader radicale, Daniele Capezzone, ha rilanciato nelle scorse settimane la proposta di abolizione dell'Ordine dei Giornalisti. Quale deve essere il ruolo dell'Ordine? «Questo è un discorso complesso; l'Ordine viene usato spesso come una lobby, però svolge essenzialmente una funzione di protezione del lavoro dei giornalisti. Se non ci fosse l'Ordine, le pressioni sarebbero ben maggiori. Però non può essere questo il suo ruolo: io penso che un sindacato vero, non la Federazione della Stampa che fa soprattutto la grande politica dell'informazione ed è poco sindacato, ma un sindacato vero, come esiste in molti altri Paesi in cui non c'è l'Ordine, dovrebbe svolgere questo ruolo di tutela. Poi, giornalista lo si è se lo si fa, questo mestiere: che io sia iscritto all'Ordine, come ce ne sono tantissimi, e non possa fare questo mestiere, e sia nella lista dei disoccupati, è un'aggravante. Allora, non basta fare gli esami, non basta ottenere una corsia preferenziale perché conosci qualcuno che ti fa entrare in una redazione e alla fine, poi, con una vertenza, riesci a dare gli esami da professionista. I giornalisti devono fare i giornalisti e quelli che fanno i giornalisti sono giornalisti, sia che ci sia l'iscrizione all'Ordine, sia che non ci sia. Secondo me bisogna ridiscutere, come per tutte le professioni, i modi di accesso». In che modo? «Questo vale per gli avvocati, per i medici, per tutti. In genere, chi è già nella professione tende a difendere la sua posizione. Bisogna ribaltare questo concetto e fare esattamente l'opposto: chi fa già questa professione deve essere disponibile ad aprire la strada a chi deve arrivare. È una questione di mentalità, ma è anche una questione di norme: meno si dà forza agli ordini professionali, più li si obbliga ad aprire le strade di accesso, e più possono rimanere. Invece, più si arroccano e meno bisogna dare loro sostegno a questo modo di interpretare l'Ordine». In Italia il rapporto tra giornalismo e politica è molto particolare. Le lancio una provocazione: nel nostro Paese ci sono più giornalisti-politici o più politici-giornalisti? «Questo è un Paese strano, dove ci sono i politici che vogliono fare i giornalisti, i giornalisti che vogliono fare i politici, i magistrati che vogliono fare i poliziotti, i poliziotti che vogliono fare i magistrati e vogliono fare i giornalisti. È un Paese nel quale i ruoli si sovrappongono; io penso che ci siano più giornalisti che vogliono fare i politici che non politici che vogliono fare i giornalisti, anche se i politici sono molto attenti alle loro amicizie in campo giornalistico».

Andrea Apruzzese

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