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Latina. Cento anni fa il Nobel a Giosuè Carducci. La vita, le opere, gli ideali del Risorgimento. Storia di buone penne e di buone forchette...

Cento anni fa veniva assegnato al Cantore del nostro Risorgimento il Premio Nobel. Qualche giorno fa è uscito un articolo sull'Avanti, a firma di Aldo Chiarle. Per chi non lo sapesse Chiarle è uno studioso serio, che si impegna da decenni in una fitta attività saggistica e giornalistica. Storico di prima grandezza, è, con Luigi Sessa, uno dei conoscitori più raffinati dei fenomeni latomistici dei primi del Novecento. Questa presentazione, con tutto l'affetto e la retorica d'uso, è d'obbligo per rendere conto al lettore del piacere di vedere due nomi carissimi ad ogni laico che si rispetti, Giosuè Carducci, per quei dieci che ancora non lo avessero capito, ed appunto il buon Chiarle. Ho conosciuto Chiarle in un paio di occasioni. Devo dire che purtroppo non sono andato oltre le presentazioni di rito, volevo avventurarmi in discussioni intelligenti per fare la figura del ragazzetto colto e brillante ma temo di non essere andato oltre generiche considerazioni sul tempo e soprattutto sul menù. Non avrò fatto la figura della buona penna ma almeno ho difeso quella della buona forchetta.
Ma veniamo a noi. Tutta vita, le opere, gli ideali, quella grande passione e tensione verso l'infinito così lontana dalla gretta meschinità e sciatteria culturale della chiesa di Roma, tutto, dicevamo, è nelle parole che l’ambasciatore di Svezia pronunciò nel consegnargli nel 1906 - cento anni fa - il Premio Nobel per la letteratura: «Il testamento di Nobel prescrive che il Premio di letteratura debba essere conferito a quello fra gli scrittori moderni che abbia compiuto l’opera più grande e più bella in senso idealistico: e tutta l’opera vostra, illustre maestro, è improntata al culto dei più alti ideali che sono sulla terra; gli ideali della patria, della libertà, della giustizia fremono nelle vostre odi e riempiono, portato dai virili accenti della vostra lira, il cuore di un popolo; passano i monti e i mari, sorgono alla vostra invocazione come genio potente all’invito del mago, ed aleggiano sopra il mondo battagliero e invitto. Questa è l’opera vostra, della vostra anima, così romanamente forte, così italicamente gentile - sotto qualsiasi forma apparisce - sempre la stessa, e dalla quale imploriamo sul vostro venerando capo la benedizione che si chiama amore». A queste parole così significative vi è poco da aggiungere, ma Benedetto Croce scrivendo del Carducci ha fatto della autentica poesia: «Tutto ciò che per un secolo gli spiriti italiani avevano bramato e cercato, dai repubblicani napoletani del 1700 e alla Giovine Italia del 1831; dai soldati di Murat a quelli che difesero Roma e cacciarono gli austriaci dai piani di Lombardia, ciò che aveva ispirato il canto dei Rossetti e dei Berchet, del Leopardi e del Manzoni, la prosa del Gioberti e del Guerrazzi, la congiura, la rivoluzione e la guerra, la letteratura e il pensiero italiano di un secolo intero, tutto risuonava in lui e si allargava in ampi giri nel suo spirito». E Chiarle annota: «Testimone ed incitatore di quella generazione che chiuse con Roma capitale il luminoso periodo dell’Italia ricomposta in libero Stato, egli fu anche l’ispiratore di quell’altra che diede compimento all’Unità con Vittorio Veneto. Le sue strofe agitarono ed esaltarono per mezzo secolo la giovinezza della nostra Italia. E l’arte sua ribelle alle accademie letterarie come alle critiche politiche, uscì trionfante dalla lotta di tutte le forze retrive contro di lui congiurate. Carducci è il poeta della nostra storia, che ne esalti le antiche glorie o le recenti, come le antiche o le recenti sventure. Egli è stato il poeta della nostra terra, il poeta della nostra secolare storia, l’animatore possente delle millenarie gesta di questa nostra gente "dalle molte vite", ma è anche il poeta che abbraccia tutta l’umanità. Ma dei molteplici aspetti del Carducci, vi è anche notevolissimo quello di appartenente alla Massoneria, il "fratello" devoto alla Istituzione e fedele sino all’ultimo ai suoi eterni principi di libertà. È facile trovare tracce del suo spirito massonico in tutte le opere che ha scritto e si può senza tema di smentita affermare che l’opera carducciana è la più alta espressione dei principi e del pensiero della Massoneria: un grande amore per la patria, una sana filosofia fondata sulla ragione, un pagano sentimento della natura e un ardente anelito verso la giustizia. Questo è lo spirito che dominò la sua mente. Ma il cardine che meglio riflette e sintetizza il pensiero massonico è indubbiamente "L’inno a Satana", contro cui si scagliò in furibonde polemiche il clericalume becero e astioso, additandolo come blasfemo e irriverente, mentre è un alto e nobilissimo grido di liberazione, di rivendicazione dei diritti della coscienza e del pensiero, voce di quella religione naturale che Bovio espresse filosoficamente. È l’intimo senso pagano che si ritroverà venti anni dopo nella più perfetta delle odi Barbare, "Alle fonti del Cliturno". Il "garibaldinismo" fu il suo costante ispiratore e Roma, intesa come simbolo di quella grandezza italica che deve fondarsi sul diritto e sulla giustizia, fu la sua musa diletta. Due anni prima di morire, sentì il dovere di telegrafare al giornale "Il Secolo", il 30 novembre 1905: "Né preci di cardinali, né comizi di popolo, io sono quello che fui nel 1867 e, tale, aspetto - immutato e imperturbabile - la grande ora". E pochi giorni dopo sempre al giornale "Il Secolo" precisava: "Non transigo sulle cose essenziali: con il Vaticano e con i preti nessuna tregua di Dio, né preci. Essi sono i veri e costanti nemici dell’Italia". Morì nel 1907 e al rito dei suoi funerali erano presenti più di novanta labari di Logge massoniche con alla testa il gonfalone del Grande Oriente d'Italia di Palazzo Giustiniani, fiancheggiato dai vessilli del Supremo consiglio dei 33 e centinaia di fratelli con in mano il tradizionale ramoscello d’acacia, simbolo della resurrezione». E in questo ricordo intenso Chiarle ricorda quanto Carducci ha detto al teatro Brunetti di Bologna due giorni dopo la morte di Giuseppe Garibaldi, improvvisando. «...Ei si fermò sul Campidoglio, levando alta la sua spada e battendo con il piede la terra, comandò a tutti i morti nelle sue battaglie, di risuscitare. Fu allora che suonò il canto delle moltitudini: Si scopron le tombe, si levano i morti, i martiri nostri son tutti risorti. E allora le rosse falangi corsero vittoriose la penisola, e l’Italia fu libera, libera tutta, per tutte le Alpi, per tutte le isole, per tutto il suo mare. E l’aquila romana tornò a distendere la larghezza delle ali fra il mare e il monte, e mise rauchi gridi di gioia innanzi alle navi che veleggiavano franche il Mediterraneo per la terza volta italiano. Liberato e restituito negli antichi diritti il popolo suo, conciliati i popoli attorno, fermata la pace, la libertà, la felicità, l’eroe scomparse: dicono fosse assunto ai concilii degli Dei della Patria. Ma ogni giorno, il sole, quando si leva sulle Alpi fra le nebbie del mattino fumanti e cade fra i vapori del crepuscolo, disegna fra gli alberi e i larici una grande ombra che ha rossa la veste e bionda la capelliera errante sui venti e sereno lo sguardo siccome il cielo. Il pastore straniero guarda ammirato e dice ai figliuoli: È l’eroe d’Italia che veglia su le Alpi della sua Patria». Oggi veglia sull'Italia Maria De Filippi.

Mauro Cascio


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