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Latina. Ricordando l'invasione dell'Ungheria. Benedetto Della Vedova (Riformatori Liberali): «Ci furono responsabilità oggettive e terribili»
«L’invasione dell’Ungheria del 1956 non è solo una questione storica; rimane, a tutt’oggi, una questione politica». Nel suo intervento alla Camera Benedetto Della Vedova, presidente di Radicali Italiani ha detto che "è un fatto che gli accordi di Yalta e l’equilibrio del terrore segnarono il contesto in cui quella splendida rivoluzione democratica e popolare fu stroncata nel sangue. Ma è un fatto soprattutto che vi furono responsabilità e colpe politiche terribili da parte di chi, nell’occidente libero, scelse di stare dalla parte della repressione".
«Le colpe e le responsabilità verso gli ungheresi e verso i democratici di tutti il mondo che gli ungheresi difendevano e per questo venivano denigrati e vilepesi; le colpe e le responsabilità della politica e dei politici per il ruolo che essi, responsabilmente, scelsero di giocare in questa vicenda: a favore o contro i carri armati sovietici; a favore o contro la libertà; a favore o contro la democrazia.
Quello era il momento per scegliere tra il comunismo riformato e riformatore di Naghy e quello totalitario e sanguinario di Mosca. Nel 1989 non si sceglieva, si prendeva semplicemente atto.
Io credo, se non si vuole essere stancamente ed inutilmente rituali anche in questa sede, occorra avere il coraggio di guardare a quegli eventi con lo stesso senso della memoria che giustamente si esige venga riservato a tutti gli eventi del secolo passato che hanno insanguinato l’Europa; con lo stesso senso della memoria, per essere chiari, con cui guardiamo a al nazismo e al fascismo. Con un senso della memoria che non può essere solo ricordo, ma deve essere giudizio; che non guarda solo ai fatti, ma alle ragioni che li hanno prodotti; che valuta gli eventi come frutto della responsabilità degli uomini, e non come un prodotto impersonale della storia; che fa carico di una ulteriore e particolare responsabilità politica ai figli e ai discendenti di quelle storie e famiglie politiche che si macchiarono di colpe terribili contro la vita e la libertà.
In Italia e in buona parte dell’Occidente europeo continuiamo a guardare al comunismo come ad una pagina più o meno gloriosa, per alcuni, o più o meno vergognosa, per altri, ma ormai passata, che sarebbe inutile interrogare e da cui sarebbe inutile essere interrogati.
Questo è un errore capitale.
So bene che rispetto ai fatti d’Ungheria, nel nostro paese, vi è un comprensibile imbarazzo dovuto al fatto che - a parte alcune esemplari testimonianze individuali - la classe dirigente del Pci, compreso chi ora è stato scelto ai vertici della Repubblica, scelse di sostenere l’invasione sovietica e di etichettare i rivoltosi che cadevano sotto il fuoco sovietico come lacchè della reazione borghese. Ma la questione rimane viva, anzi, ancora più straziante proprio per il fatto che una parte delle classe dirigente italiana ritiene di doverla, tuttora, rimuovere, magari sperando che venga consegnata all’oblio della storia senza un vero e non reticente confronto pubblico.
Il Presidente dei DS, vicepresidente del Consiglio e Ministro degli esteri partendo per l’Ungheria due giorni fa diceva (cito da Repubblica): «Vado a Budapest per ricordare i tragici fatti del 1956. E non per chiedere scusa, visto che allora ero bambino».
Questo paese non sarà più diviso, ma più unito, più coeso e più pacificato (e meno ostaggio della dialettica delle propagande contrapposte) solo nel momento in cui questa rimozione sarà fatta cessare; solo nel momento in cui un rappresentante della storia comunista italiana che sentiamo ancor oggi rivendicare orgogliosamente - non importa se di 30, 50 o 80 anni – avrà il coraggio e la dignità di andare a Budapest non per fare autocritica o per “riconsiderare” le scelte allora compiute dai singoli e dal partito, ma, come giustamente si aspettano gli ex-studenti che in quell’ottobre scamparono al massacro, per chiedere scusa e per pronunciare parole analoghe a quelle - certo dolorose, ma necessarie - che il Presidente Fini pronunciò a Gerusalemme sulle leggi razziali imposte dal fascismo».
Elisabetta Rizzo
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