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Latina. Veneziani, l'Occidente e i barbari. In sala da barba da sempre ci si sente più liberi di dire. La democrazia in Iraq è appesa a un pelo
«C'è una barbarie che si alimenta di fanatismo, cioè di una fede portata agli eccessi,
disposta a sacrificare tutto e tutti; e una barbarie che si alimenta di nichilismo,
ovvero di un'assenza di scopi disposta a vanificare tutto e tutti. In entrambe cresce il
deserto, l'assenza di vita e di civiltà». Per il Marcello Veneziani de «Contro i barbari» (Mondadori)
l'Occidente non ha un nemico, ma due. Uno vorrebbe distruggerci, l'altro si dissolve e ci
dissolve nel niente.
A volte i barbari ci vogliono. «Li aspettiamo come liberatori, anzi come azzeratori di realtà
e strutture che si sono ormai svuotate di senso e sclerotizzate; che sono diventate
inespressive e flaccide, ma anche opprimenti. I barbari, in questo caso,
sono una scossa di adrenalina, l'immissione di vitalità e di un soffio primitivo
in culture stanche e declinanti».
Si chiamano barbari perché in origine avevano la barba incolta. «Nel mondo antico
venivano da nord; ora da sud o da Oriente. I più recenti con grandi barbe sono
i talebani, gli ayatollah e i terroristi islamici; ma anche i terroristi rossi
e i fanatici nostrani di solito avevano grandi barbe. Come i contestatori del '68.
La barba di Bin Laden è uno status symbol della barbarie nel deserto. Regimi fanatici
sono cresciuti con le barbe; e inquieta la barba minacciosa del premier
iraniano Ahmadinejad. A Kabul il governo talebano non c'era più, il governo mujaeddin
non c'era ancora e nell'interregno i garanti della democrazia afghana sono stati
i barbieri. A loro è stato affidato il compito di radere la barbarie e di compiere il primo
atto di liberazione da quella specie di burqa naturale cresciuto come muschio selvatico
sui volti dei tagiki in ossequio al regime. Gli afghani si rivedono finalmente in faccia e
riacquistano la loro libera personalità attraverso l'insopprimibile diversità dei volti.
Sembravano tutti uguali. L'impressione è che le barbe si vendessero ai magazzini
del popolo, come il burqa; taglie uniche, colori standard. Anche per i terroristi
nostrani la barba è stata una specie di passamontagna naturale ma anche un distintivo
ideologico nel nome dei profeti ideologici e barbuti della rivoluzione.
Al barbiere, alfiere di libertà e sacerdote delle pubbliche relazioni, tocca una missione
civilizzatrice. Nei regimi dittatoriali le uniche riunioni consentite in luoghi chiusi
erano nelle sale da barba, dove realmente si poteva mormorare sotto i baffi, far la fronda
o scambiarsi messaggi clandestini. Ma anche la mafia ordiva o compiva alcuni dei suoi
atti rituali e barbarici nelle sale da barba; tuttora, a volte, accade. Crocevia di microcosmi
e di pettegolezzi, il barbiere era anche un luogo mitico dove si raccoglievano i si dice,
si conosceva lo spirito del tempo e della comunità, si confrontavano e si criticavano gusti
e disgusti e si apprendevano i vizi più di moda. Ora sì che sei più civile, dicevano
i padri ai figli usciti dal barbiere. Dal barbiere si sapeva dei nuovi arrivi di meretrici
in paese, con le relative specialità e curriculum, e si respirava aria di seduzione
in quei calendarietti profumati da mal di testa, con femmine procaci, donati dal barbiere a fine
rasatura. Servile con i clienti e tirannico con i garzoni di bottega, il barbiere
appariva al tempo stesso suddito e sovrano della sua sala. In sala da barba ci si sentiva
più liberi di dire, come se il sapone in faccia, il panno bianco addosso e la posizione
semireclinata consentissero la fuoruscita di sfoghi e confidenze altrimenti
indicibili de visu, in posizione eretta; come in un confessionale laico. Il barbiere
era anche un musico e cerusico, medico chirurgo, suonava la chitarra, controllava
la pressione salassando con le sanguisughe. A Kabul, nella fase della transizione infinita
della democrazia, il barbiere è diventato quasi il supplente della forza pubblica».
La civiltà, in Afghanistan e in Iraq, è appesa a un pelo.
Mauro Cascio
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