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Latina. Coppie di fatto. Benedetto Della Vedova (Riformatori Liberali): «Non è possibile che lo Stato intervenga in patti tra privati»
Giornali e tv traboccano di spiegazioni circa la necessità di un nuovo quadro giuridico per le
"coppie di fatto". Milioni di persone, si dice, vivono l’unione affettiva al di fuori del
vincolo coniugale col medesimo trasporto, affetto, progettualità e senso di reciproco
sostegno dei maritati. Ergo, se non riconosciamo loro le stesse prerogative -
magari qualcosina meno, per non dare troppo nell’occhio - operiamo un’ingiusta discriminazione.
Una premessa e una considerazione.
La premessa. Un libertario - conseguente - spiegherebbe che diritti e doveri, anche in
ambito familiare, dovrebbero dipendere dalla libera contrattazione tra individui e lo
Stato non dovrebbe interferire riconoscendo "la famiglia" in quanto tale come soggetto
giuridico. Per capirci: la reversibilità della pensione dovrebbe scaturire da un sistema
previdenziale a capitalizzazione che la preveda per privato contratto, a favore
del coniuge o di altri. Idem per la reversibilità del contratto di affitto, l’assistenza
e le disposizioni in caso di grave malattia, la visita in carcere. Così anche per
l’eredità, escludendo la "quota legittima". È una logica coerente, che si farebbe bene
a prendere sempre in seria considerazione. Ma è un fatto che la famiglia come la conosciamo
e nella quale si riconoscono miliardi di donne e uomini non è un artificiale prodotto
della normativa - nel nostro caso, del Codice Civile - bensì il portato di una
lenta e consapevole evoluzione della tradizione e del costume. Non si tratta di un
detestabile costruttivismo statalista, ostile alla libertà degli individui. Morale: ad oggi,
per di più nell’Italia ipercorporativa e statalista, smontare le prerogative pubblicistiche
della famiglia non mi pare una strategia praticabile né opportuna. Da qui si parte.
E ora una considerazione, anzi due.
Salvo eccezioni marginali - le persone in attesa di divorzio, ad esempio - le coppie
di fatto eterosessuali scelgono liberamente di vivere la propria condizione familiare
al di fuori di un riconoscimento formale. Preferiscono gestire in piena libertà i propri
rapporti, rifuggendo tanto l’onerosità, sociale e non solo, del vincolo matrimoniale,
quanto i benefici che ne derivano. Proprio per rispetto di questa scelta lo Stato dovrebbe
restarne fuori dicendo: se cambi idea in una settimana regoli la pratica in comune e, voilà,
reversibilità, affitto, ospedale, eredità non saranno più un problema. Altrimenti,
sono fatti tuoi. E invece no: lo stato paternalista vuole una forma di famiglia ad hoc.
Un po’ meno famiglia, come ha spiegato il Ministro Pollastrini: gli alimenti al coniuge
in caso di separazione, ma solo "per alcuni anni". Magari la reversibilità della pensione,
ma solo dopo cinque anni.
Ma, anche dopo i Pacs, resteranno centinaia di migliaia di coppie di fatto "libere". E dunque,
coerentemente, ci si dovrà occupare anche di loro: che ne so, alimenti per un solo anno e
reversibilità dopo dieci anni. Di questo passo, sempre in nome della reversibilità
senza discriminazioni, arriveremmo all’obbligo di accedere ad una qualche
regolamentazione pubblica dopo una settimana di convivenza "more uxorio", con tanto
di visite ispettive dei vigili urbani e punizione per chi si ostinasse a non
ufficializzare la propria unione. Non la voglio buttare in burla, giacché
la questione è seria, ma non riesco a fare dei pacs per le coppie eterosessuali
una priorità. Tanto più che le tutele per i figli sono ormai acquisite e che
la giurisprudenza ha già posto rimedio ad alcune questioni delicate (sulla
pensione di reversibilità in generale, sull’uso e l’abuso, andrebbe aperta la discussione).
Assai diversamente la questione si pone per le coppie omosessuali. Parlo ovviamente di
quelle coppie che scelgono di vivere secondo un patto duraturo di reciproca solidarietà
ed assistenza. Queste situazioni, almeno nell’occidente libero ancorato alle
radici giudaico-cristiane, sono un fatto sempre più socialmente accettato. Sono entrate
nella nostra "tradizione". Queste centinaia di migliaia di italiani non hanno oggi
alcuno strumento per vedere riconosciuta pubblicamente la propria unione, contrarre
reciprocamente obbligazioni vincolanti e in cambio vedersi riconosciute alcune
prerogative: eredità, pensione, assistenza e responsabilità di scelta della cura
in caso di incoscienza del partner, visita in carcere, onoreficienze alla memoria,
subentro nell’affitto. Qui siamo effettivamente alla discriminazione ed è
doveroso colmare la lacuna, con un intelligente mix di "registrazione" pubblica e
interventi sul Codice Civile. Non parlo di matrimonio, giacché occorre trattare
e chiamare in modo diverso realtà differenti, ma il riconoscimento giuridico
per quelle coppie omosessuali che lo richiedano è doveroso. E io, pronto a discutere
sul "come", lo appoggio senza se e senza ma.
Elisabetta Rizzo
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