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Latina. L'Aleph di Borges, la libertà della vita e l'accanimento terapeutico della modernità, ovvero: perché non voglio andare a Zelig
Possiamo azzardare un esperimento mentale: a suggerircelo
è Borges in un racconto dell'Aleph. Nella Repubblica degli Immortali
si raggiunge la "perfezione della tolleranza e quasi del disdegno".
I suoi concittadini sono diventati "invulnerabili alla pietà"
- pietas religiosa inclusa. Non vi sono più manifestazioni di culto,
operazioni simboliche e la stessa civilizzazione scivola nell'oblio.
Gli Immortali non hanno più ragione di credere, ma neanche di fare
scienza, tecnologia o poesia. «Neppure il destino personale
interessava». Cioè, vi immaginate che palle? A queste condizioni
molto meglio il nostro relativo, il nostro molteplice.
Pensare che questa condizione di unità perfetta - in cui tra l'altro
non si scopa non essendo necessario lasciare un'eredità e una prole
dietro di sé, non essendoci la cronia, il divenire - è la promessa
della religio, ovvero dell'arte del legare insieme: non perpetuarsi
nelle generazioni a venire, ad un'immortalità "terrena", non
"in" questa vita, ma "dopo" questa vita. Certo, a parte i metodi
di "indiamento" c'è il rischio della favola appena dietro l'angolo.
Giulio Gorello e Umberto Veronesi, in un intenso dialogo nel testo
curato da Chiara Tonelli "La libertà della vita" intrecciano
un discorso su evoluzione e ambiente, libertà di ricerca scientifica
e responsabilità morale, salute e ragione, religione e precauzione.
«Possiamo ripartire dalla battuta conclusiva del "Mondo come volontà
e rappresentazione" di Schopenauer: "Di quel nulla, che ondeggia
come ultimo termine in fondo a ogni virtù e santità... noi abbiamo
paura della tenebra come i bambini". L'essere umano è animale
ambiguo, e la sua "doppiezza" risiede in questo: "da un lato, è animale
"metafisico", cioè capace di stupirsi del semplice fatto di esistere
e perfino di interrogarsi sul senso della propria vita; dall'altro
è animale fisico, dotato di un corpo, soggetto a istinti e desideri.
Sta qui il conatus di Spinoza, o la "cieca volontà" di Schopenauer
- ma nel "disegno" della natura l'essere umano dovrebbe riuscire ad abbandonare
il proprio istinto di autoconservazione». [...] «Pensiamo proprio alla morte.
Per millenni gli esseri umani hanno temuto di morire anzitempo, a causa di carestie,
di epidemie, di guerre. Ricordate quanto è operosa la morte nel Settimo sigillo di Ingmar Bergman?
Oggi sembra accadere il contrario, e questo perché le metodiche di sostegno,
che il sapere medico ha sviluppato, consentono di tenere in vita chi un tempo, nelle
stesse condizioni, sarebbe morto. Di qui il diritto-dovere di una fine dignitosa.
Per dirla con Spinosa, vi è davvero un tiranno che ci costringe alla morte,
e questo tiranno è lo scadimento ineludibile e irreversibile del nostro corpo
e, soprattutto, del nostro cervello». Il problema è: chi è il padrone
della nostra vita? John Locke rispondeva che la signoria è solo di Dio. David
Hume la pensava diversamente: siamo noi i veri padroni di noi stessi, per cui,
con l'Amleto di Shakespeare, "basta un nudo pugnale per liberarsi di tutto".
Insomma in grandi questioni etiche, come l'accanimento terapeutico,
l'eutanasia, il "diritto al suicidio", la posta in gioco è la libertà dell'individuo
di determinare da sé la propria esistenza. E questa libertà e il nocciolo di ogni
libertà. Se si mette in discussione pure questo, poi so cazzi.
PS. Chissà se questo pezzo è piaciuto al mio vinaio.
Io non sapevo nemmeno che mi leggesse. Non sapevo nemmeno
che sapesse chi fossi. Io ci andavo giusto a comprare il vino,
e tanti saluti, buongiorno e buonasera.
Lui mi fa: «L'ho letta questa settimana, ma ho riso di meno
della settimana prima». E qui io ci sono rimasto male due volte.
Primo perché essere riconosciuto mi dà fastidio.
Ma è un problema da cui non esco vivo, perché se non mi si riconosce
mi dà fastidio lo stesso. Come esco di casa sono infastidito
comunque, qualsiasi cosa succeda. Ma sto fatto che ha riso di meno
era proprio da restituirgli il vino e diventare astemio nei secoli a venire.
Ma ti pare che io mi metto a scrivere per far ridere? Ora, non dico
che da grande voglio fare Massimo Cacciari, ma secondo te stringi
stringi alla fine il mio sogno più grande è andare a Zelig?
Mauro Cascio
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