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Roma. Il nipote di Wittgenstein, Thomas Bernhard all'Eliseo. Umberto Orsini: «Quella del drammaturgo austriaco è una disperata voglia di senso»
Davanti le Telecamere di ParvapoliS Umberto Orsini. Fino al 20 maggio, l’attore festeggia all’Eliseo 50 anni di splendida attività teatrale con all’attivo 38 allestimenti, tutti adattati nel prestigioso teatro romano che gli dedica per l’occasione le locandine di ogni singola messinscena, visibili al pubblico nella Sala Patroni Griffi. L’artista novarese impersona Thomas Bernhard ne ‘Il nipote di Wittgenstein’, grande testo letterario del drammaturgo austriaco morto nel 1989. E’ la storia di un’amicizia con Paul Wittgenstein, il nipote del celebre filosofo, che Bernhard ritrova in ospedale nel 1967, lui malato di tisi e l’amico, in un letto duecento metri più in là, nel reparto psichiatrico, insano di mente. Due storie di perturbamento interiore, di solitudini che si confrontano, ma diversi modi di reagire alla malattia generale della società che, con le sue falsità, ipocrisie e mediocrità, soffoca l’individuo e annichilisce chi ha una particolare sensibilità, facendolo il più delle volte soccombere. È il caso di Paul Wittgenstein che si fa dominare dal proprio male di vivere, soccombendo col suicidio; Thomas, al contrario, cerca disperatamente di affermare la propria dignità individuale attraverso la parola, che diventa una incessante denuncia contro l’aberrante regola del vivere quotidiano. E la logorrea dell’autore austriaco lancia continui e pesanti macigni contro lo spettatore che, suo malgrado, viene irretito dal perfido ma accattivante gioco di smascheramento delle assurdità imposte da una società sciatta e banale, superficiale e fasulla. Una grande prova d’attore per Umberto Orsini che rende magnificamente il linguaggio sferzante e ironico dell’autore austriaco, attraverso una modulazione vocale ed una mimica facciale che ben rendono i diversi stati d’animo del soliloquio intimista. Lingua che, all’improvviso, è una frusta sibilante armata di invettive contro l’intellighenzia tutta, medici, scrittori, attori, politici, intellettuali in genere, accademie culturali, loro sì esponenti di un mondo irrimediabilmente malato e minato da corruzione, con autocompiacimenti e sperticate lodi con false premiazioni. Ed è attraverso la forma con la quale riveste la parola bernhardiana che Orsini riesce a descrivere i diversi stati d’animo, la nausea del vivere dietro alla quale emerge faticosamente l’affermazione, la dignità della vita del drammaturgo di Salisburgo. L’amico Paul affoga sulla zattera della follia, Thomas riuscirà a dominarla attraverso l’alto esercizio linguistico, la genialità della sua scrittura. L’incessante cascata di parole lo traghetterà fino alla fine dei suoi giorni, dandogli un senso nel caos, nella frammentazione esistenziale. Nell’ efficace allestimento del regista francese Patrick Guinand, che ben evidenzia l’arredamento in stile bucolico della casa di campagna, con i sapienti effetti di luce che risaltano le confessioni diaristiche dello scrittore, assume importanza la presenza silenziosa dell’attrice Elisabetta Piccolomini, che accompagna i gesti casalinghi dell’artista regolandone il flusso linguistico. Da notare, inoltre, come Orsini dia risalto alla musicalità della verbosità bernhardiana innestandosi perfettamente con la musica solenne di sottofondo nonché concentrando l’attenzione dello spettatore sull’archetto del violino, strumento preferito e studiato dall’autore austriaco. Il pubblico, alla fine di 85’ di intenso monologo, tributa grandi applausi di ammirazione ad Umberto Orsini.
Claudio Ruggiero
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