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Latina. Le inquietudini di Miguel de Unamuno. Roberto Gervaso sul Messaggero: «Un libro splendido. Un potente intellettuale, lucido e spietato»
Roberto Gervaso, nella sua rubrica “a tu per tu” sul Messaggero consiglia un libro “che ho appena finito di leggere, e rileggere, chiosare e meditare, di Miguel de Unamuno”. «Unamuno è stato, con Ortega y Gasset, con Salvador de Madariaga e con Santayana, naturalizzato americano, uno dei Grandi del Novecento spagnolo (e non solo spagnolo). Per me, ma io non sono né un filosofo né un critico letterario, è stato anche il più profondo, quello che ha capito meglio l’animo iberico ed umano». Il volume consigliato, “vivamente raccomandato” è “Inquietudini e meditazioni”, uno “splendido saggio”. «Splendido non solo perché l’autore è un potente intellettuale, lucido e spietato, ma splendido anche per la prefazione di Armando Savignano e l’introduzione di Elena Cellini. Se su vuole farsi un’idea di questo superbo scrittore iberico non ci si perda né la prosa di Unamuno né quella dei due studiosi. Unamuno, nato nel 1864 e morto nel 1936, inizio della rivoluzione spagnola che porterà al potere il generalissimo Franco, fu un uomo brillante e tormentato. A macerarlo, ma anche pungolarlo, il dilemma e il conflitto tra scienza e fede. La scienza è logica e il suo strumento è la ragione. Ma questa ha dei limiti. Dei limiti, e degli aneliti. Ci rendiamo conto della nostra condizione, della nostra impotenza ma, al tempo stesso, aspiriamo all’immortalità, all’eternità. Chi ha la fortuna di credere (ma quanti ci credono davvero?) a un’entità superiore, a un Dio che giudica, assolve, condanna, punisce, non ha, non può avere, i rovelli interiori di chi non ha avuto il raro dono della grazia. Unamuno non era ateo, come non lo era Voltaire, come, si parva licet componete magnis, non lo siamo noi. Era un uomo inquieto, che non si rassegnava, che voleva combattere perché combattere è vita, sfida continua. C’è in lui molto pessimismo, lo stesso di Schopenauer, ma c’è anche il superomismo di Nietzsche. Al destino, di cui ignoriamo i decreti, che per gli assertori del Caso sono arbitrii o capricci, non ci si ribella. Siamo perennemente nel dubbio e nella tempesta. Uno stato che accascia i deboli e tonifica i forti. A quelli che vogliono a tutti i costi lottare. Anche contro i mulini al vento, come don Chisciotte. Non importa ciò che sarà di noi. Importa non abbassare la guardia, non piegare il capo, non consegnare le armi. Se dobbiamo perire, periamo. Ma sul campo. Solo i codardi lo disertano, quando vedono la malaparata. Gli audaci, i veri uomini, vengono trascinati via, fatti prigionieri, resi schiavi dal nemico (e il nemico più implacabile è il fato). Escono dalla lizza, coperti di ferite e di sangue, ma a testa alta, pronti, alla prima occasione, a ridiscendere in campo e a tentare la riscossa. La vita ci può anche destituire, ma non saremo noi a dimetterci. “Dio ci dona tempesta”, scrive Unamuno nel saggio “La bohemia spirituale”. È un suo potere, forse, un suo diritto. Perché lo fa? Per esortarci e spingerci al duro, durissimo cimento. A noi non resta che affrontare le avversità, quasi invocandole. Cerchiamoci nemici, confrontiamoci con loro. L’importante, se si deve morire, è morire in piedi. Gli occhi e l’animo al cielo, fino a fonderci e confonderci con esso nella più insondabile delle immensità».
Mauro Cascio
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