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Latina. You, the living. Ovvero: quando una banale recensione senza infamia e senza lode può tradursi in intensa esperienza spirituale...
Mi hanno detto: devi vedere "You, the living". Imperativo categorico. Mica uno poteva sottrarsi. Il regista è un certo Roy Andersson, un autore svedese per cui è normale avere una doppia esse nel cognome che segue una consonante. In Italia sarebbe sembrato un errore di battitura. E chissà quanti quel cognome si sono sentiti di correggerlo. Alla fine al cinema Oxer ci sono andato. E devo dire che ne è valsa la pena. "Allora scrivi qualcosa", mi hanno fatto. Ma vi pare che io sia credibile come recensore cinematografico? Io sono un crociano. Un film o è bello o è brutto. Punto. Non c’è funzione mediatrice che tenga. Non c’è critico legittimato. C’è solo uno schermo e lo spettatore davanti. Ed è lui, lo spettatore, che deve reagire. Non esiste in sala il critico e gli spettatori. Ciascuno spettatore è un critico, ed è il più serio ed affidabile per sé. Non c’è nessuna differenza oggettiva tra "Vacanze di Natale" e "You, the living", tutto dipende da come il film parla a noi, da come noi lo interpretiamo. Se in noi prevale la voglia di svago non ci sono cazzi. Neri Parenti è un capolavoro, Andersson con una erre e due esse una stronzata insopportabile. Può capitare, però, che in noi prevalga la voglia di riflessione, di approfondimento; può capitare che l’esistenzialismo sia una caratteristica del nostro stare al mondo, non una corrente culturale che se ne sta lì, lontana da noi, su di un libro, su di una rassegna, qualcosa che puoi al massimo studiare e non sentire tuo. E allora tutto si capovolge. Quindi, secondo me, io altro non posso dirvi che questo: andate all’Oxer a vederlo, tanto lo proiettano fino a giovedì. Perché il fatto che sia piaciuto a me è meno che secondario. Vi posso giusto dire cosa mi ha colpito, cosa lo rende unico.
C’è la tristezza che fa un mezzo giro breve, su se stessa, come una vite e che è carica
di tutta la stanchezza dell’esistere, di quelle abitudini di cui nemmeno ti rendi conto, delle vigliaccherie, degli appesantimenti dell’anima che ti inchiodano all’ovvio, al quotidiano, al banale. Così ecco tra la nebbia di una città anonima – svedese, ma senza strane doppie esse dopo una erre – figure che si ritagliano uno spazio, figure senza orizzonti, senza prospettive. Banalità deformate come la creta che modelli con le mani. Maschere allucinate che raccontano in macchina le loro ansie e le loro paure, i loro sogni e le loro sconfite, in un teatro urbano che una fotografia monocromatica ha reso ora giallognolo, ora verde, ora celeste. Una maestrina piange in classe perché il marito le ha dato dell’arpia, un’alcolizzata più di me e cicciona più di me sfoga sul marito le sue frustrazioni, un ometto piccolo e smunto pensa ai suoi fondi pensionistici mentre fa l’amore, una ragazzina sogna di sposare una rockstar. Tutti disperati. Tutti a galleggiare in un’assenza di trama che si compiace di un clima da teatro dell’assurdo, un Beckett al cinema con accenti onirici tutti felliniani. Pensonaggi sciocchi, se li vedi da fuori. Ma tutti con una disperata voglia di rimanere a galla in una vita che, malgrado tutto, è ancora poesia.
Mauro Cascio
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