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Latina. Cinquant'anni dalla morte di René Guénon, il filosofo che divenne musulmano. Uno "scandalo" che nessun dibattito ha mai lambito
Le ultime parole che Abdel Wahèd Yahia, ossia il "Servitore dell'Unico",
proferì in punto di morte furono: «El nafass khalass», «L'anima se ne va»,
e subito dopo, da buon musulmano: «Allah è grande». Era quasi la mezzanotte
del 7 gennaio 1951, nel pieno di un inverno troppo rigido per Il Cairo. Un dispaccio
dell'agenzia France Presse diede la notizia del decesso con due giorni di ritardo,
facendo sapere il vero nome del defunto, quello con cui aveva firmato tutte le
sue opere, una ventina di volumi ed oltre trecento articoli: René Guénon.
Dal marzo del 1930 l'illustre pensatore francese - nato a Blois il 15 novembre
1886 - si era ritirato nella capitale egiziana, dove aveva vissuto e aveva lavorato
per oltre un ventennio, aveva appreso alla perfezione l'arabo, si era sposato con la
figlia di uno sceicco e si era convertito - lui, l' "inconvertibile" - all'Islam.
Mezzo secolo è trascorso dalla sua morte. Eppure, oggi più che mai, la sua scelta
per l'Islam e le sue riflessioni sulla crisi del mondo moderno appaiono come la premonitrice
testimonianza di un destino cui improvvisamente tutti siamo coinvolti. Il destino
tra una collisione tra la civiltà occidentale, caratterizzata da uno straordinario
sviluppo materiale e da un corrispondente impoverimento morale e metafisico, e le
civiltà che ancora conservano le vestigia di un ordinamento tradizionale. Come, appunto,
quella islamica. René Guénon dimostrò, sin da giovane, una non comune passione per
lo spirituale e l'esoterico, ma diede anche prova di risolutezza e autonomia di giudizio,
sapendosi orientare nel torbido mondo dell'occultismo della Belle Epoque. Si era formato
alla scuola dell'abate Gombault, un tomista interessato ai "fenomeni preternaturali",
mentre Albert Leclère, suo insegnante di filosofia al liceo, vedeva nella sapienza
dei presocratici un'alternativa alla decadenza dei tempi moderni.
Più tardi avrebbe frequentato la scuola ermetica del celebre Papus e altri gruppi
iniziatici: l'ordine martinista, la Chiesa gnostica (di cui divenne vescovo con il nome
di Palingesius e diresse la rivista La Gnose), la Massoneria della Grande Loggia
di Francia. Tutto ciò mantenendo rapporti stretti con il mondo cattolico, specialmente
con Jacques Maritain, che aveva conosciuto alla Sorbona, e con la rivista Regnabit,
alla quale collaborò insieme all'iconografo esoterista Louis Charbonneau Lassay.
Il merito fondamentale che gli va riconosciuto è quello di aver fatto chiarezza nel torbido
mondo dell'esoterismo grazie alla sua definizione rigorosa, dottrinale, del fenomeno.
Essa gli consentì di distinguerlo nettamente sia dal misticismo, da lui considerato
un'attitudine spirituale passiva ed essenzialmente occidentale, sia dall'occultismo,
orientato non alle conoscenze intellettuali bensì a pratiche magico-sperimentali.
Forte di questa sua distinzione, indirizzò il suo furore polemico contro
la Società Teosofica di Madame Blavatsky, liquidata come pseudo-esoterismo e contro le
varie forme di spiritismo dell'epoca, bollate come satanica superstizione del paranormale.
L'autentico esoterismo era per lui solo quello della Tradizione. Ovvero l'idea che tutte le
grandi tradizioni iniziatico-religiose - l'induista, l'islamica, la taoista, e in
Occidente il cattolicesimo - risalgano a un'unica grande Tradizione universale,
depositaria della conoscenza metafisica pura e dei metodi dell'iniziazione e della
realizzazione spirituale. Per questo, quando nel 1912 aderì all'Islam facendosi
iniziare al sufismo grazie alla mediazione di un singolare personaggio, il pittore
svedese Ivan Agueli, Guènon non considerò questo suo passaggio come una "conversione",
bensì come un "ricongiungimento" con la Tradizione primordiale, e si proclamò in tal
senso "inconvertibile". Tra le conseguenze più interessanti che egli deriva dall'idea
di Tradizione, c'è la sua intransigente critica del mondo moderno in due celebri
libri: «La crisi del mondo moderno» (1927) e «Il Regno della quantità e il segno dei tempi» (1945).
Guénon vi analizza le tipiche superstizioni prodotte dalla mentalità occidentale: la cieca
fiducia nel materialismo scientifico, l'ideologia ottimistica del progresso, l'individualismo,
l'anomia sociale, la ragione ridotta a razionalità strumentale che governa ormai solo un
"regno della quantità". Insomma, una civiltà che ha perduto i valori spirituali
e metafisici ed è esposta a tendenze "controtradizionali" quali il diffondersi
di pseudo spiritualità e false profezie. Per Guénon il mondo contemporaneo
è piombato ormai nell' "età oscura", il Kaliyuga della tradizione induista,
caratterizzato da fenomeni di confusione, decandenza e degenerazione. Le sacre
verità della Tradizione, sempre più occulte e irrangiungibili per l'umanità,
nel suo insieme, sarebbero accessibili soltanto a una ristretta cerchia di iniziati,
ai realizzati che possiedono la "scienza sacra". In una serie di studi, che impressionano
per la vastità delle conoscenze, la profondità della dottrina e la lucidità dell'esposizione,
Guènon si affannò a rintracciarne tale scienza del corpo di simboli e conoscenze contenuto
nei testi delle grandi tradizioni, nel sufismo islamico, nella metafisica speculativa,
nella qabalah e perfino in dottrine come l'aristotelismo o in un poema come la Divina Commedia.
E nella misteriosa figura del Re del Mondo - il sovrano universale, da non confondere
con il re di questo mondo - non si peritò di riconoscere l'unità originaria di sacerdozio
e regalità, che dal regno sotterraneo di Agarttha irradia la sua aura.
Guenòn era convinto che solo l'Oriente avesse conservato i valori tradizionali,
e con essi la possibilità dell'iniziazione e della realizzazione spirituale:
ex Oriente Lux. Nell'Occidente invece tale possibilità sarebbe stata compromessa,
e solo "le più alte tradizioni occidentali, quella aristotelica e quella cattolica",
ne custodirebbero qualche traccia. Riteneva in particolar modo che la Chiesa cattolica
romana, in forza della sua tradizione, e la Massoneria per il suo potenziale iniziatico, fossero
le uniche istituzioni in Occidente nelle quali riporre qualche speranza.
Anche quando, deluso dalla scarsa considerazione riservatagli dal mondo cattolico,
passò all'Islam, dal suo ritiro egiziano non smise di guardare all'accoglienza
che l'Occidente riservava al suo insegnamento. Frithjof Schuon, suo allievo, fondò
in Francia una setta iniziatica che a lui si ispirava ma finì per allontanarsi dal maestro
lasciandone la guida al diplomatico rumeno Michel Valsan. In seno alla Massoneria francese
fu istituita una loggia guénoniana. La sua intelligenza affascinò intelligenze come
Malraux, Gide, Breton, Daumal, Paulhan, Aleister Crowley, ispirò studiosi di
storia delle religioni come Mircea Eliade o Titus Burckhardt, illuminò uno storico
dell'arte come Ananda Coomaraswamy. In Italia fu soprattutto Julius Evola che ne recepì
e ne face conoscere il pensiero, malgrado profonde differenze nella valutazione
dei contenuti tradizionali del cristianesimo o del buddhismo. Esoterista
che condannava gran parte dei contenuti tradizionali del cristianesimo e del
buddhismo. Esoterista che condannava gran parte dell'esoterismo, massone
che stigmatizzava senza mezzi termini la Massoneria degenerata a comitato
d'affari, pensatore che liquidava più o meno tutta la tradizione filosofica,
a cinquant'anni dalla morte Guénon rimane uno scandalo che i flutti del dibattito
contemporaneo lambiscono senza riuscire a smuovere.
Mauro Cascio
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