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Latina. Gli incontri culturali di ParvapoliS. Marcello Veneziani: «Gli intellettuali di destra sono visti male da sinistra perché di destra e da destra perché intellettuali». La cultura conservatrice sui temi cruciali del tempo

Davanti le Telecamere di ParvapoliS Marcello Veneziani. Che vuol dire essere di destra oggi, qual è la cultura della destra e come si esprime nel nostro tempo davanti ai problemi cruciali creati dalla globalizzazione e dall'immigrazione, dal dominio della tecnica e del mercato, dalla bioetica e dalle nuove famiglie? Ecco le principali domande a cui cerca di rispondere un saggio di prossima uscita per La Terza che evidenzia alcune contraddizioni: la forbice esistente tra una cultura di destra larga e diffusa e una cultura militante di destra che è invece minoritaria e marginale e il paradosso di una destra che per la sinistra è sempre stata al potere sotto falso nome (liberalismo, fascismo, democrazia cristiana, berlusconismo) e per i suoi sostenitori invece è sempre stata all'opposizione. Ed anche il difficile ruolo dell'intellettuale di destra, "visto male da sinistra perché di destra e visto male da destra perché intellettuale.
Giornalista brillante come pochi, scrittore e studioso di filosofia, Veneziani è autore di vari saggi, tra i quali: «L' antinovecento. I profeti del terzo millennio» (1996), «Sinistra e destra» (1997), «Comunitari o liberal» (1999), «Di padre in figlio - Elogio della Tradizione» (2001). Editorialista di «Il Giornale» e di «Il Messaggero», collaboratore della Rai, è stato direttore di «Il Borghese» e «Lo Stato». Ha diretto e fondato l'«Italia settimanale». Veneziani si è confrontato anche con i temi che ParvapoliS ha affrontato in questi mesi con i più grossi intellettuali italiani. La globalizzazione, per esempio. Un intellettuale schierato a destra segnala limiti e contraddizioni di un processo che rischia di ricondurre ogni aspetto della vita umana al puro scambio economico. Il mercato è utile e necessario ma non è tutto. E non può essere lasciato a se stesso, perché determinerebbe la fine della politica e l'avvento di una società controllata da un'oligarchia di mega-azionisti e tecnocrati, coadiuvati dai comunicatori. «C'è un'aura di fatalismo intorno alla globalizzazione che nuoce alla comprensione critica e attiva del fenomeno. C'è la riduzione della globalizzazione a fenomeno ineluttabile, automatico, quasi atmosferico, comunque scritto nel codice genetico del mondo, della civiltà e dell'Occidente. E tutto questo non giova a governare i suoi processi, a filtrare i suoi esiti, a favorire o limitare alcuni suoi effetti. Per cominciare c'è una considerazione di ordine generale che va meglio precisata. In senso lato, è vero, la globalizzazione è un destino scritto nel cammino dell'uomo, e in particolare dell'uomo occidentale. Le gambe su cui avanza sono la volontà di potenza e l'universalismo religioso. Da una parte infatti l'espansione illimitata dell'umanità viene sospinta dallo spirito di conquista, dalla volontà prometeica di soggiogare il mondo e di assimilarlo, plasmarlo a propria immagine e somiglianza. E tutto questo nasce da quel conato originario che Nietzsche designò appunto come Wille zur Macht, volontà di potenza. Dall'altro verso un'esigenza opposta alla volontà di potenza e al titanismo accompagna l'avventura dell'Occidente da Alcuni millenni: è il monoteismo, la religione universale e i suoi corollari, espressi soprattutto nel cristianesimo, come l'ecumenismo, l'evangelizzazione, lo zelo missionario per redimere e convertire i popoli. Le due spinte si mescolarono nell'epoca della colonizzazione che fu la prova generale della mondializzazione. La prima forma di globalizzazione fu dunque l'impero. A seguire il cosmopolitismo illuministico e massonico, il filantropismo sociale, l'internazionalismo socialista...».

Marco Battistini

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