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Latina. La disfatta di Sharon. Domenico Cambareri: «Gli spiriti più illuminati d'Israele
dovrebbero prendere consapevolezza di avere oramai mondializzato la questione ebraica:
è ora di smetterla con gli integralismi»
L’attacco sferrato dal governo e dall’esercito israeliano contro i palestinesi e contro il
loro capo, Arafat, ha raggiunto l’apice della cecità politica e strategica di Tel Aviv.
Sharon conta sulla logica della pressione militare - "convenzionale" assolutamente solo in
apparenza - esercitata e da esercitare al massimo della forza e ad oltranza nel tempo. Egli
punta alla neutralizzazione in qualsiasi modo di Arafat, neutralizzazione che comporta anche
una qualche forma di morte "non voluta" ma indotta dal lungo perdurare della tragicità delle
"circostanze" (gli israeliani sanno certamente più dei medici del leader palestinese sulle
condizioni della sua salute, caso Assad docet). Egli ha già realizzato, nel corso di questi
lunghi, tormentati e sanguinosissimi mesi, comunque un obiettivo importante che gli è valso
molto per contrabbandare sul piano politico-diplomatico le nefandezze palestinesi e il
tentativo di ostracizzare il nemico storico, al fine di conseguire un placet politico e
morale dal mondo occidentale per schiacciare ogni forma di resistenza palestinese. Questo
obiettivo è l’attacco sistematico alla persona di Arafat e la distruzione sistematica arrecata
alle strutture materiali e umane dell’Autorità Palestinese. Sicché, ad ogni incursione degli
elicotteri, dei cacciabombardieri, dei carri armati israeliani contro postazioni, edifici,
uffici, caserme, centri di trasmissione e uomini dell’organizzazione palestinese, ha
corrisposto l’attacco senza riserve contro Arafat, unico e ed esclusivo responsabile di tutto
quanto sta accadendo. Neutralizzare le strutture di questo stato larvale e il ruolo del suo
capo significa infatti metterlo alla berlina e renderlo connivente e addirittura regista
di ogni azione di qualsiasi gruppo palestinese.
La strategia di Sharon e di quanti lo sostengono, però, è miope e fallace in tanti sensi, Essa
ritengo che non potrà ancora per lungo tempo convincere i falchi della potente lobby ebraica
statunitense, che in questi ultimi mesi ha così tanto frenato più chiare e precise assunzioni
di responsabilità dell’amministrazione Bush. Colgo l’opportunità per anticipare che parte del
grande errore americano (cosa su cui tornerò con un prossimo editoriale) sta nell’avere
avallato una certa fantomatica e generalizzante classificazione dei gruppi e delle attività
terroristiche di rilievo antiamericano e internazionale secondo criteri che coincidono con
quelli israeliani. Certo, la sottigliezza degli analisti del Pentagono, della Cia e degli
altri centri di intelligence USA talora fa davvero piangere, salvo il volere considerare
come chiave di lettura Israele come uno degli Stati facenti parte degli USA, cosa che non è.
A cosa mira Sharon? Dalla lucida e impeccabile determinazione dell’azione condotta da
quest’uomo, il fine risulta chiaro. Spiralizzare al massimo la lotta e la violenza,
distruggere ogni ruolo pratico dell’Autorità palestinese, decretare la morte ad ogni buon
conto e in qualsiasi modo di Arafat sul piano politico e fisico, allontanare il più possibile
la "pace" sino a che i falchi che lo circondano non accetteranno come lui ha sicuramente
già accettato in cuor suo, di smobilitare la politica colonialistica, almeno in gran parte.
Sino a quel momento, egli ha, a suo avviso, buon giuoco di utilizzare il massimo della forza
a sua disposizione. Ciò gli permette, fra l’altro, di potere giocare d’anticipo sulle future
mosse nello scacchiere internazionale, cosicché un prezzo così alto per lui e i nazionalisti
israeliani (le colonie) porterebbe automaticamente all’estinzione dell’altra clausola
(Gerusalemme est) a vantaggio definitivo di Israele.
Certo non conosciamo gli aspetti più specifici del fallimento del tavolo negoziale preparato
dagli americani, ma sappiamo e ben comprendiamo che le due clausole presupposte da ambedue
le parti sono costituite proprio da Gerusalemme est e dalle colonie. Sappiamo anche benissimo
tutti, e lo sanno ancora meglio tanto gli israeliani quanto gli americani, che mai vi sarà
pace in questa regione sino a che non saranno soddisfatte queste precondizioni che sono
espressione della vita, della ragion d’esistere e dell’identità stessa del popolo palestinese.
Fra i tanti torti (per non essere cattivo o per non sembrare preconcetto e antiamericano
nei confronti di un alleato che come tale e come amico del popolo italiano convintamente
riconosco, senza perciò deporre ogni capacità di valutazione critica) di Washington e delle
due ultime amministrazioni presidenziali, di cui l’ultima, quella del conservatore Bush, vi è
quello della proposta di un cosiddetto piano di pace, elaborato nientemeno che dal capo della
Cia, che prevede fra le clausole che devono portare all’incontro al tavolo delle trattative,
almeno sette giorni di cessazione di ogni violenza. Questo non è un piano, per quanto si
voglia essere buoni verso i nostri amici e alleati, ma un contributo, o meglio una
certificazione ufficiale del sabotaggio messo in atto da tutte le parti: tutti, Tenet in
testa, sanno che non ci saranno mai sette o cinque giorni senza atti di violenza da parte
dei tanti gruppi , delle tante frange palestinesi eterodirette e delle attività occulte
israeliane.
Le pressioni internazionali su Tel Aviv sono ancora blande, per quanto nelle parole molto
forti: l’Unione Europea e gran parte dei suoi singoli Stati, Italia non ultima, la Russia,
l’ONU, perfino gli Stati Uniti hanno cercato di mandare precisi segnali a Sharon, ma questi
fa orecchie da mercante.
Il problema è molto più complesso, delicato e profondo di quanto possa a prima vista
apparire pur nella sua spinosa difficoltà. Ad esso si connettono tanti altri aspetti che
paiono essere autonomi. Le condanne emesse nel corso di tanti anni dal Consiglio di sicurezza
dell’ONU ad Israele sono rimaste cosa insignificante per Israele, il diritto di questo
Stato invece di perseguire chiunque venga ritenuto nemico di Israele è una prassi dello
stato ebraico non contestata e non denunciata nei fori internazionali, come è una prassi
il colorarsi la sua struttura sociale sempre più di tinte religiose e non laiche. È ancora
un fatto molto più eclatante l’avere sempre Israele rifiutato con forza l’invio da parte delle
Nazioni Unite di osservatori lungo le linee di demarcazione con i territori palestinesi. Sono
queste le cose gravi, a cui le grandi potenze devono guardare, con estrema attenzione.
Un primo passo, forse il più decisivo, per il superamento di queste violenze incontenibili
e del giuoco al massacro che fa rialzare la testa al terrorismo internazionale, e segnatamente
all’integralismo islamico - ma che fa più il giuoco dei falchi israeliani -, è quello di
imporre definitivamente a Tel Aviv la presenza di forze armate sotto egida ONU. Israele non
può e non deve trovare altri escamotage: la determinazione dell’ONU, se c’è la determinazione
americana, potrebbe piegare la fanatica opposizione israeliana minacciando di paracadutare
le truppe di interposizione ONU. Sarebbe chiaro che un attacco agli aerei da trasporto da parte
israeliana costituirebbe un attacco contro le Nazioni Unite.
Questa è una carta anche in grado di mettere fuori giuoco Sharon e perfino ministri laburisti
come Ben Eliazir, ministro della Difesa, ma anche le attenuanti del tiepido e misurato Peresh,
quando questi afferma che la battaglia di questi giorni è la battaglia per la sopravvivenza di
Israele. Così non è. È invece la battaglia di chi ha perso tutto, e combatte per la propria
terra con ciò che gli rimane, il tritolo e i propri figli, contro un invasore fanatico e cieco.
Ulteriori passi per generare una defaiance di Sharon e della deriva dell’ideologia di
Gerusalemme capitale eterna degli ebrei, sono quelli interni. Negli ultimi mesi diverse
centinaia di soldati israeliani, anche dei reparti scelti, hanno rifiutato di essere
ancora una volta utilizzati in questa sporchissima guerra. La mobilitazione di oltre
ventimila riservisti potrà ritorcersi contro il fanatismo etnicoreligioso ebreo. È ancora
presto dirlo, ma è bene che anche dall’interno di Israele gli spiriti più illuminati
prendano consapevolezza di avere oramai mondializzato la questione ebraica quanto la
questione palestinese. E certo oggi non sono i palestinesi che massacrano uno Stato che,
per quanto piccolo e sulla terra che fu loro, è diventato una superpotenza.
Domenico Cambareri
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